«Nel calcio contano più i giocatori bravi che noi allenatori»
Vìnse lo scudetto con la Fiorentina e fece il bis a Bologna scalfendo il dominio delle grandi. Scoprì lui molti azzurri dell’82
(di Cesare Lanza per LaVerità) La prima volta che lo incontrai, avevo 14 anni e gli chiesi un autografo. Un episodio banale? No, indimenticabile per me, e vi racconterò tutto: mai, a quell’età da adolescente, avrei immaginato che un giorno, neanche 15 anni dopo, avrei avuto, da giornalista, una frequentazione assidua e importante, con lui, il grande Fulvio Bernardini. Grandissimo calciatore e, come allenatore, l’unico che riuscì a spezzare – prima alla guida della Fiorentina e poi del Bologna – il soffocante dominio del triangolo Milan/lnter/Juventus. Ma vado per ordine. Vi dice niente questa formazione? Giuliano Sarti, Ardico Magnini, Sergio Cervato, Giuseppe Chiappella, Francesco Rosetta, Armando Segato, Julinho, Miguel Montuori, Giuseppe Virgili, Guido Gratton, Maurilio Prini. Una grandiosa squadra, rimasta nella memoria degli appassionati di calcio, anche se sono passati 65 anni. La Fiorentina che vinse nel 1956 lo scudetto in modo trionfale, allenata da Bernardini, detto «Fuffo», o «il Dottore» (perché era laureato in scienze economiche) dai suoi innumerevoli tifosi e ammiratori. Ebbene, a quella Fiorentina sono legato da questo ricordo adolescenziale: facevo, come tuttora faccio, un tifo sfrenato per il Genoa. Nell’ultima giornata di quel campionato lo squadrone di Bernardini era imbattuto, aveva festeggiato lo scudetto con largo anticipo. Venne a Genova. Non c’era possibilità di confronto, eppure proprio allo stadio Marassi la Fiorentina perse la sua imbattibilità: i «miei» genoani vinsero 3-1! In stile Genoa: imprevedibile, travolgente. In svantaggio nel primo tempo, poi tre gol, di cui due negli ultimi cinque minuti. All’epoca nel calcio non c’erano violenze: i calciatori, vincenti o perdenti, uscivano tranquillamente e firmavano autografi per i tifosi. Ed ecco che quello fu il primo incontro con il mitico Fuffo. Dopo aver raccolto le firme dei miei idoli, Gren, Corso (ch’era stato espulso, il Genoa vinse in dieci!) e Carapellese detto Carappa, chiesi l’autografo a Bernardini. Mi domandò come mi chiamassi e scrisse: «A Cesare, tifoso genoano». Poi mi guardò e sorrise: «Contento come sei, certo non sei tifoso della Fiorentina! » Risposi orgogliosamente: «Io sono genoano! Ma anche un suo ammiratore… perché non viene ad allenare il Genoa?». Lui scoppiò a ridere, mi diede un buffetto e borbottò: «Chissà… Mai dire mai! Sei genoano fino al midollo, eh?» (Ricordo tutto, come se fosse ieri: non sapevo cosa fosse il midollo). Dopo molti anni arrivò a Genova, ma non alla guida della mia squadra del cuore, bensì dei poco amati cugini della Sampdoria: tuttavia ci furono rapporti cordiali, ci incontravamo spesso. Io mi occupavo dello sport al Secolo XIX. Di lui mi colpivano l’eleganza, la bonarietà e la cultura. Si parlava di pallone, ma anche di terrorismo (infuriavano le Brigate rosse), di crisi economica, di cinema e di giornalismo. Perché Fulvio era anche un giornalista. Lui viaggiava oltre i sessant’anni (era nato a Roma il 28 dicembre 1905 e a Roma si spense nel 1984, per una grave malattia), io ero un ambizioso giovanotto neanche trentenne. Ironico con lievità, ma gentile, affettuoso: come sono i (pochi) romani aristocratici nel cuore, non quelli di sangue blu. E io ricambiavo: «Visto che sei laureato e scienziato, mi dici come va a finire la crisi economica e anche l’austerità?». Sospirava: «Abbiamo sprecato la ricostruzione meravigliosa fatta dopo la guerra». (Mi sembra un’analisi valida ancora oggi). «Ci sarà da soffrire».
E le Brigate rosse? Fulvio era di destra, ma senza pesantezze. «Nessun problema, vedrai, su quelli. Sono estremisti rossi, ci vuol poco a capirlo. Si annulleranno con le loro mani. Vogliono una rivoluzione popolare e ammazzano la povera gente? Operai, magistrati, insegnanti, sindacalisti, giornalisti… È un comportamento disumano e anche un errore grossolano, elementare. Determinante, sarà determinante». Questa frase, preveggente, mi tornò in mente spesso durante i giorni del rapimento di Aldo Moro, quando furono massacrati gli agenti di scorta. Spesso gli chiedevo, senza però avere una risposta drastica, quale suo scudetto preferisse. Perché Fuffo era riuscito a ripetere il capolavoro fiorentino a Bologna, qualche anno dopo. Precisamente nella stagione 1963-1964, e fu il primo allenatore a vincere il campionato alla guida di due squadre diverse. Rispondeva come fanno i genitori quando parlano dei figli: «Sono scudetti diversi, ma gli affetti sono uguali. Con la Fiorentina da un certo punto in poi fu una passeggiata, quella era una grandissima squadra, giocava sempre bene. Con il Bologna si soffrì fino all’ultimo, fino allo spareggio a Roma. C’era una sfida con il potere milanese, che sosteneva l’Inter di Helenio Herrera». C’era stato un clamoroso episodio: alcuni giocatori del Bologna furono squalificati per doping, e anche Fuffo: sanzioni in classifica, infine annullamento e riabilitazione.
C’erano nel Bologna eccellenti campioni: Romano Fogli, Giacomo Bulgarelli, Ezio Pascutti, Harald Nielsen, il tedesco Helmut Haller. Sapevo che Bernardini aveva detto che con quella squadra gli sembrava di essere in paradiso (10 vittorie consecutive, allora un record). Ma non mi confidò mai quale fosse la sua preferenza. L’episodio del presunto doping fu devastante: cinque giocatori furono squalificati, poi assolti perché si ritenne che fossero stati dopati a loro insaputa. Con il presidente del Bologna, Renato Dall’Ara, non andava d’accordo. «Quell’uomo lì, quasi quasi lo odio! Mai che venga a farmi visita, mai che mi racconti chi farà giocare domenica, mai che mi metta in squadra Vinicio e Nielsen, per la miseria! E poi il suo calcio poetico del cavolo… io voglio il catenaccio metropolitano, altroché i suoi fioretti di San Francesco!», diceva Dall’Ara. Replica di Fulvio per le rime: «Se vuole un tattico, si prenda Rocco e non rompa… se vuole un servo che vada a giocare a briscola nel suo ufficio, si prenda una delle sue segretarie! E poi Vinicio e Nielsen insieme non li faccio giocare, perché non mi va., punto e basta!». I due non si intesero mai. «Prima si insegna a giocare a calcio e poi si vincono gli scudetti: ma solo poi ! », teorizzava Bernardini. Quando seppe la notizia della squalifica, il leggendario Dall’Ara scoppiò a piangere e dopo poche settimane morì per un infarto: non potè assistere allo spareggio, a Roma, tra il suo Bologna e la grande Inter. Fu accertato che le provette con la pipì dei calciatori (destinate al controllo antidoping) fossero state manomesse, con l’aggiunta di anfetamine in dose tale da stendere un cavallo. Il Bologna, assolto, ottenne la restituzione dei tre punti che gli erano stati tolti e si ritrovò alla pari con l’Inter di Herrera. La Gazzetta dello Sport propose la divisione dello scudetto in due, ma non si fece. L’Inter chiese il rinvio dello spareggio, il Bologna volle giocare subito. E difatti si giocò a Roma, all’inizio di giugno, allo stadio Olimpico, Fulvio battè 2-0 Herrera con gol di Fogli e di Nielsen. Ecco le pagelle, temutissime, di Gianni Brera, che detestava Bernardini: 9 a Janich e Fogli, protagonisti nel Bologna, 9 anche a Picchi nell’Inter, 4 invece a Sandro Mazzola e Jair, irriconoscibili. Una curiosità: la Rai non ritenne opportuno trasmettere l’evento (lo spareggio resta tuttora un fatto unico nella storia del calcio italiano), oggi l’indifferenza sarebbe inimmaginabile. Determinanti furono il caldo e una certa stanchezza dell’Inter, ma Bernardini si impose anche grazie a un’astuta mossa tattica, il terzino Bruno Capra schierato sulla fascia sinistra, all’ala, con il compito di bloccare Mariolino Corso. A Genova – dov’era arrivato nel 1965 – per me era davvero un piacere parlare con Fuffo: mai mi fece sentire la differenza di 40 anni di età. Frequentavo alcuni dei suoi giocatori: il portiere Pietro Battara. Giorgio Garbarmi, il grandissimo Romeo Benetti, un vero amico, Giancarlo Salvi ed Ermanno Cristin. Chiedevo a Fulvio giudizi e retroscena, di solito gli allenatori rispondono con opinioni banali. Lui, no: mi illuminava parlando di qualità e difetti, aiutandomi a capire la complessità del calcio. Detestava il catenaccio, preferiva schemi di attacco, alla fine diceva che la differenza era fatta dai calciatori di talento, non dagli allenatori. Dopo il 1974 disastrosa eliminazione in Germania della Nazionale dal Mondiale – fu nominato et della nostra squadra azzurra. Incassò sconfitte bruttine e roventi critiche da parte dei giornalisti catenacciari, Brera e i suoi seguaci. E lui? «Ora possono dirmi e farmi di tutto, ma la Nazionale l’ho avuta, ci ho lavorato con entusiasmo, era lo scopo della mia vita, ho lanciato tanti giovani in gamba che mi vogliono bene. Quando decideranno di togliermela, gliela restituirò senza far storie. Fastidi non ne ho dati e non ne darò».
Però il mio amico Giorgio Tosatti lo elogiò per la girandola di giovanissimi dai piedi buoni che convocò, preparando una grande svolta di cui dopo tre anni usufruì il suo successore, Enzo Bearzot. Inventò Alessandro Altobelli e individuò il talento di Giancarlo Antognoni. Aveva doti naturali che lo distinguevano. Amava la qualità, valorizzava i giovani, aveva intuizioni tattiche innovative: nella Fiorentina fu il primo a inventarsi l’ala tattica, Maurilio Prini. Un’idea in seguito copiata da molti, anche in campo internazionale. Nel calcio iniziò come portiere, poi come centravanti e centrocampista, sempre cervello della squadra. Vittorio Pozzo, un galvanizzatore superbo e orgoglioso del suo ruolo, lo escluse dalle convocazioni in nazionale con questa motivazione: «Sei troppo bravo, metti a disagio gli altri, si romperebbe la coesione del gruppo». Però penso che i motivi fossero altri: a disagio era lui, Pozzo! Perché gli altri giocatori – due volte campioni del mondo, nel 1934 e nel 1938 – erano più o meno soldatini e se si ribellavano lo facevano in modo popolaresco. Fuffo no: aveva idee ed eleganza e spesso, con il ragionamento, si opponeva a Pozzo. Con garbo? Questo è ciò che si dice. Ma non sono mai riuscito ad accertare se sia vera un’altra indiscrezione. Bernardini più di una volta, con freddezza, avrebbe tirato un paio di ceffoni ai suoi interlocutori e verso i suoi giocatori, mai. Ma da calciatore verso allenatori e dirigenti, sì. Un’altra sua rarità. Non so se sia vero. Ma non mi stupirei. Addirittura Fulvio si sarebbe ribellato a Pozzo, e questo spiegherebbe l’incomunicabilità tra i due. Glielo chiesi almeno dieci volte. Cambiava discorso, però un giorno si lasciò andare: «Pozzo non amava le discussioni e le obiezioni. Io invece ho sempre cercato di confrontarmi ragionando. Però – aggiunse con un sorriso autoironico – Pozzo ha vinto due volte il campionato del mondo, io solo due scudetti».