Correva l’anno 1886, quando la Regina Vittoria concesse a Sir George Goldie uno statuto per la sua Royal Niger Company. Le grandi potenze coloniali europee si stavano spartendo le ricchezze del continente africano e quel particolare statuto concesse al gentiluomo scozzese nientemeno che il diritto di amministrare il delta del Niger e il suo entroterra. Una fonte di ricchezze indicibili. In tutta l’Africa sub-sahariana gli europei potevano far conto su potenza e tecnologia, e ne trassero beni e profitti. In primo luogo, hanno preso gli schiaviprima di rivolgere la loro attenzione a materie primecome l’oro, il cacao, la gomma e il caffè.
Finché nel 1900 la società di Goldie, come previsto, trasmise i suoi diritti direttamente al governo britannico.
In Nigeria l’indipendenza è stata ottenuta nel 1960 ma il commercio continua ad essere condotto attraverso le élite politiche con accesso alle risorse e le materie prime lasciano il continente senza lasciarsi dietro che poche tracce di ricchezza, destinando i veri profitti ad altri paesi.
La situazione cambierà con la rivoluzione tecnologica in atto? Il boom tecnologico permetterà al continente africano di colmare il gap con il resto del mondo?
Da questo punto di vista, il segnale più incoraggiante è stato il salto dell’Africa verso i telefoni cellulari, aggirando quasi del tutto la tecnologia della rete fissa.
Juliet Anammah, AD delle operazioni nigeriane di una società chiamata Jumia, lo scorso mese di aprile ha suonato la campana di apertura della Borsa di New York.Jumia è una società di e-commerce soprannominata “l’Amazon dell’Africa” che opera in 14 paesi africani, dalla Nigeria all’Egitto, dalla Costa d’Avorio al Kenya, ed è diventata la prima società di e-commerce interamente focalizzata sull’Africa a essere quotata nella prestigiosa Borsa americana.
Con una combinazione di tecnologia online e infrastruttura strategica offline – inclusa la logistica e lo storage – Jumia promette a una classe di consumatori africani l’opportunità di consegnare le merci direttamente nelle loro case. Un iPhone o un televisore LED con il semplice tocco di uno schermo, scavalcando le strade piene di buche e gli ingorghi di traffico che caratterizzano molte città africane (e non solo) in rapida crescita.
L’interesse era forte e le azioni della compagnia alla fine della giornata, sono salite del 75%, valutando l’azienda entro 2 miliardi di dollari e il prezzo delle azioni è balzato dai 14$ sino a 40.
Nonostante fosse un valore economico contenuto per gli standard della Silicon Valley, la quotazione di Jumia è stato un evento estremamente significativo. Ha mostrato al mondo che la tecnologia africana aveva raggiunto la maggiore età e che gli investitori potevano guadagnare denaro da una società con grandi piani di espansione africani, aiutando le imprese africane e le economie africane a tracciare un nuovo futuro, un’onda lunga partita dieci anni fa in Kenya – dopo il passaggio alla telefonia mobile – con l’invenzione di M-Pesa, un sistema per il trasferimento di piccole somme di denaro tramite cellulare. M-Pesa e dozzine di varianti oggi sono utilizzate da centinaia di milioni di africani, molti dei quali altrimenti esclusi dal sistema bancario formale e questo ecosistema a Nairobi ha dato origine a un vivace centro tecnologico conosciuto, come “Silicon Savannah“. A sua volta, Lagos, la capitale commerciale della Nigeria, ha il suo hub tecnologico nel distretto di Yaba, noto come “Yabacon Valley”. In tutto il continente, un’esplosione nell’uso dei telefoni cellulari e la crescente penetrazione degli smartphone hanno aperto la possibilità di servizi basati su app che possono, almeno teoricamente, affrontare problemi derivanti da standard educativi, da cui deriva lo sviluppo di Bridge, supportata da Bill Gates e Mark Zuckerberg, offrendo un programma di studi standardizzato viene trasmesso agli insegnanti con i tablet.
È ancora presto per festeggiare, del resto lo scorso anno, le start-up africane hanno registrato un record di 726 milioni di dollari, poco più di un decimo dei 7 miliardi di dollari raccolti da start-up tecnologiche indiane nello stesso periodo. Jumia impiega 5.000 persone in Africa ma appena la società ha completato la sua quotazione a New York, si è alzata la voce dei suoi detrattori che accusano Jumia di non essere affatto un’azienda africana.
In effetti Jumia è stata costituita nel 2012 a Berlino. Originariamente si chiamava Kasuwa, che significa “mercato” in Hausa, una lingua usata nel nord della Nigeria. Successivamente, è stato ribattezzato Jumia Group. Al livello più alto, la compagnia è gestita da dirigenti francesi, che hanno operato fuori Parigi fino a quando non si sono trasferiti nell’attuale sede di Dubai.La maggior parte dei tecnici che progettano e gestiscono i sistemi online di Jumia sono cittadini portoghesi. Per cui è lecito chiedersi, cosa c’è di diverso fra Jumia, Shell e Coca-Cola? Tutte loro impiegano migliaia di africani, ma non possono rivendicare di essere africane.
Al di là delle polemiche qui si gioca una partita cruciale. Il co-amministratore delegato di Jumia, Sacha Poignonnec, un cittadino francese, ha affermato alla CNBC: “Siamo un’azienda completamente africana”. E allora, se i suoi dirigenti non sono africani, si domanda il FT, cosa c’è di diverso fra Jumia e la Royal Niger Company? Forse, invece del petrolio e dei diamanti, oggi aziende come Jumia stanno saccheggiando dati e profitti. Si tratta di tecno-colonialismo?
La pensa così Rebecca Enonchong, un’imprenditrice tecnologica nata in Camerun: “Abbiamo una storia dolorosa con aziende europee e l’eredità coloniale sembra che si stia ripetendo nel mondo di start-up. Lungi dall’aiutare l’Africa, Jumia e aziende simili, stanno soffocando l’industria tecnologica nazionale africana alla nascita”.
In effetti, uno studio del 2018 sulle start-up nell’Africa orientale ha confermato che il 90% dei finanziamenti è andato a fondatori stranieri e molti imprenditori africani si lamentano che le aziende straniere usino una falsa identità africana come strumento di marketing ad alto impatto.
TMS Ruge, un imprenditore ugandese, rileva quella che definisce una “ricolonizzazione digitale” del continente. Più razionale e mediatrice la posizione di Kabirou Mbodje, fondatore della società di pagamenti mobili senegalese Wari: “Jumia è tutto tranne che un’azienda africana ma dobbiamo congratularci con loro. Tutto ciò mostra che in questa terra adesso le opportunità di mercato e per attrarre investitori stranieri ci sono. Gli imprenditori africani devono svegliarsi”.
Business Insider