Nel mondo in cui ancora tutto è possibile, il mondo degli annunci che non sono stati messi alla prova della realtà, i leghisti continuano a chiamarla flat tax. Ufficialmente i compagni di governo del M5S non si avventano sui microfoni, come facevano prima del voto europeo, per stanare Matteo Salvini e dire che del suo grande piano fiscale si intravedono solo le parole e non i soldi. Ma chiacchierando con le fonti più accreditate sulla materia, si intuisce immediatamente che i grillini gongolano al pensiero che alla fine si potrebbe convergere su una proposta fiscale sponsorizzata dal ministro dell’Economia Giovanni Tria e modellata su quella del Movimento. Un piano che prevede una revisione delle aliquote Irpef, che scenderebbero a tre, più il taglio del cuneo fiscale. La formula che al momento è allo studio dei tecnici del M5S è questa: sulla percentuale ridotta dell’Irpef un punto sarà dedicato alla diminuzione del cuneo fiscale. Obiettivo da realizzare «entro la fine dell’anno», ha garantito Luigi Di Maio, assieme alla sterilizzazione dell’aumento dell’Iva, per la quale servono 24 miliardi. Di Maio non cita la flat tax.
Semplicemente il capo politico del M5S la snobba. L’ordine della scuderia grillina è di fare altrettanto, nella convinzione che sia rischioso mettersi di traverso a una riforma poderosa sul fisco, anche se è solo dichiarata e ancora non sostanziata dai numeri. Inoltre, c’è la sensazione che pure Salvini stia sgonfiando la sua promessa. La flat tax, secondo le cifre fornite dal vicepremier leghista, costerebbe 15 miliardi. Accorpamento degli scaglioni, riordino delle detrazioni e taglio del cuneo, secondo i 5 Stelle, sarebbero molto più abbordabili, considerati gli impegni già gravosi per la manovra. Ieri anche il premier Giuseppe Conte ha benedetto la nuova sfida del M5S rilanciando «una riforma organica del sistema fiscale e una congrua riduzione del cuneo fiscale».
Ma è da altro che i grillini deducono di poter guadagnare spazi nelle trattative che delineeranno il perimetro del nuovo fisco. Quando il viceministro della Lega Massimo Bitonci accusa i 5 Stelle di aver «copiato la proposta di Tria» che «era sul tavolo già lo scorso anno», secondo gli uomini di Di Maio si sta tradendo. Perché, rifiutandosi di riconoscerne la paternità al Movimento, ammette che resta quello l’approdo più a portata. Nella riforma Irpef targata 5 Stelle gli scaglioni previsti sono tre più una “no tax area” che sale fino a 10 mila euro (oggi è 8 mila). L’aliquota più alta scende da 43% a 42 %, quella al 41% arriva al 37% e quelle fino al 27% vengono riunite tutte al 23%. Costo calcolato: 3,5 miliardi; fino a mille euro l’anno i risparmi per la classe media.
Vero è che Tria aveva proposto in fase di manovra, a fine 2018, una rimodulazione molto simile degli scaglioni. Risorse necessarie: dai 3 ai 4 miliardi. La Lega però preferì usarli per Quota 100, alzando i costi destinati alle pensioni e scatenando la contrarietà della Commissione Ue a Bruxelles. Riproposto ora, quello schema, sostenuto dal ministro del Tesoro e dai 5 Stelle, potrebbe portare a un superamento delle ambizioni di flat tax. Sempre secondo Bitonci la Lega punta a ridurre al 15% le tasse sui redditi medi, «una fascia che oggi paga un’Irpef media del 25%».
Detto così, sarebbe un taglio netto del 10%. I soldi in tasca agli italiani del ceto medio sarebbero molti di più. Ci sono le risorse per farlo? Secondo il Carroccio sì, secondo il M5S no. A meno che non ci sia il trucco e la Lega si riferisca all’Irpef cosiddetto percepito. Con il gioco delle detrazioni, infatti, il valore percepito dell’imposta può variare. Tra i 15-35 mila euro è il 16-17%, come tre giorni fa ha detto lo stesso Bitonci. Per arrivare al 15% basterebbe tagliare un punto o poco più. Fosse così, non sarebbe nulla di colossale. Ecco perché, maliziosamente, la viceministra del M5S Laura Castelli ha detto di «essere stupita dal collega che parla di pressione fiscale percepita e non dello scaglione reale».
Ilario Lombardo, La Stampa