L’inglese è ormai una lingua «necessaria», lo usiamo tutti i giorni. Ma quando si parla inglese per lavoro, sono tantissimi gli errori che vengono commessi. Ecco i più tipici
Ma valigie si scrive con la «i» o senza? I dubbi linguistici sono all’ordine del giorno per tutti noi, se poi dobbiamo parlare un’altra lingua, il problema si fa ancora più arduo. L’inglese è ormai, o almeno dovrebbe esserlo, una seconda lingua anche per noi italiani. E, infatti, lo usiamo tutti i giorni, intramezzando i nostri discorsi con parole che ormai sono diventate di uso comune e che mai ci sogneremmo di tradurre.
Da «feedback» a «meeting» a «brunch», ormai questi vocaboli vengono pronunciati in maniera corretta anche da chi non conosce perfettamente l’inglese, con buona pace dei puristi che preferirebbero venissero utilizzati vocaboli italiani.
Ma quando si parla inglese per lavoro, sono tantissimi gli errori che vengono commessi e che ci rendono decisamente riconoscibili.
Secondo i dati di Education First EPI, il più ampio rapporto internazionale sulla competenza dell’inglese nel mondo, gli italiani hanno una conoscenza «moderata» della lingua della regina. Ci provano, si lanciano: scrivono email di lavoro su argomenti noti e capiscono i testi delle canzoni. Oltre questo però, si trovano in difficoltà. Del resto se pensiamo all’eloquio abbastanza improbabile dell’ex premier Matteo Renzi, non è difficile credere che l’ultima rilevazione della multinazionale delle lingue EF ci releghi al penultimo posto in Europa.
Ma quali sono gli errori più comuni che facciamo? «I più gravi sono quelli di pronuncia» ci spiega Allison «Gracie» Bell, insegnante di inglese della scuola Extreme English 4 Kids che si occupa degli alunni adulti. «Gli accenti per noi sono naturali e fondamentali. Se vengono sbagliati, cambia proprio il significato della parola e quindi il senso della frase. E spesso l’effetto buffo è dietro l’angolo».
La protagonista di questo primo punto è la consonante «h», che in italiano definiamo «muta» e che foneticamente, ha valore solo quando si trova vicino alla «c» e alla «g» perché il suo suono cambia da dolce a duro. Parlando, invece, la «h» quando si trova all’inizio di una parola è appunto muta. Ma la stessa «h», invece, nella pronuncia inglese esiste e se non viene aspirata diremo una cosa per un’altra: «hungry» (affamato) e «angry» (arrabbiato) per noi italiani suonano praticamente allo stesso modo, ma è evidente che andare al ristorante «affamato» o «arrabbiato» è cosa ben diversa.
«Un altro grave errore che si commette è pensare in italiano e quindi tradurre la frase che si ha in testa “letteralmente”. È un automatismo naturale quando si impara una lingua diversa dalla propria, ma riduce notevolmente l’apprendimento. Intanto perché tra le due lingue esiste una fondamentale differenza tra le strutture grammaticali e sintattiche, e poi perché l’inglese si caratterizza molto per l’utilizzo di modi di dire che non hanno niente a che vedere con la lingua italiana».
A complicare ancor di più le cose, i «false friends»: «Molte parole in inglese traggono in inganno perché pur essendo molto simili ai vocaboli italiani, hanno tutto un altro significato. E possono portare a fraintendimenti. Un esempio su tutti: “actually”. Questa parola è usatissima dagli inglesi, ma il suo significato è “effettivamente, a dire il vero, in verità”, non “attualmente”. Perciò, quando incontrate qualcuno che vi chiede cosa state facendo nella vita, rispondere “actually, I’m a…” è sbagliatissimo».
E questi sono i più gravi. Poi ci sono quelli che si possono perdonare, ma che in ogni caso mostrano la non padronanza della lingua: «Sono per lo più sbagli grammaticali, come l’uso degli articoli. Voi li usate molto più spesso di quanto facciamo noi. Per esempio, spesso “my friend”, diventa per voi “the my friend”. Oppure l’aggiunta del suono vocalico – e – alla fine delle parole. L’inglese ha molte parole che finiscono con la lettera “e”, ma la maggior parte delle volte è silenziosa. Diciamo che agli italiani, invece, piace pronunciarla!».
Sembra di capire che l’inglese venga maltrattato nel nostro Paese, ma secondo i docenti delle scuole di lingua più importanti, il problema non sarebbe in una incapacità innata nell’approccio ad un’altra lingua, ma piuttosto un problema di metodo di studio: «Nonostante studiate l’inglese fin dalla prima elementare, l’insegnamento nelle scuole si focalizza sulla grammatica, trascurando la conversazione e la pratica dell’ascolto. Nelle altre nazioni l’inglese fa parte della vita quotidiana. Per esempio, film e programmi vengono guardati in lingua originale con i sottotitoli. In Italia no, usate il doppiaggio. Quando si impara una lingua, inserirla nella vita di tutti i giorni è molto importante, perché la rende più vera. Ed è sicuramente questo il modo migliore per impararla».
Simona Sirianni, Vanity Fair