Nel 1977, per produrre vinili, l’industria discografica consumava 58 milioni di chilogrammi in plastica. Nel 2016, la quantità era scesa a 8 milioni. Un calo drastico, grazie al fatto che il settore è profondamente cambiato. L’avvento del digitale e soprattutto delle piattaforme streaming hanno ridotto la fruizione della musica nel formato fisico e di conseguenza anche l’utilizzo dei materiali plastici. Insomma, si potrebbe dire che la musica in streaming rispetta l’ambiente, ma non è proprio così. Infatti, secondo uno studio dell’università di Glasgow, l’introduzione del formato digitale ha portato a un aumento delle emissioni di gas serra. Nel 2016, i gas serra prodotti dalla trasmissione e dal salvataggio di file musicali era pari ad un massimo di 350 milioni chilogrammi. Una cifra molto più alta rispetto ai 58 milioni di chilogrammi di materiale plastico prodotto nel 1977, anno del picco delle vendite di dischi negli Stati Uniti.
«Si potrebbe dire che la musica digitale fa bene all’ambiente, ma dallo studio emerge un quadro molto diverso. Soprattutto quando pensiamo all’energia elettrica consumata per potenziare l’ascolto della musica online. La memorizzazione e l’elaborazione utilizza una quantità enorme di risorse ed energia, che hanno un forte impatto», afferma Kyle Devine, ricercatore dell’università di Oslo tra i firmatari della ricerca.
Lo studio si focalizza anche sul costo dello streaming. Più cresce l’impatto sull’ambiente, più diminuisce il prezzo che gli ascoltatori sono disposti a pagare. Nel 1997, si trattava del 4,83% di un salario settimanale medio. Nel 2016, la percentuale è ferma all1%. Insomma, costa molto meno ma il prezzo da pagare è molto salato.
Marco Tonelli, La Stampa