Le donne italiane sono state incoronate come le più intraprendenti d’Europa e il loro lavoro «hand made» acquista sempre più importanza, dal punto di vista artistico ed economico
Una volta era normale vedere le donne che ricamavano, che lavoravano a maglia, che intrecciavano cesti, che cucivano abiti. E poi le donne hanno cominciato ad andare in ufficio e tutti quei lavori si sono fatti più velocemente con le macchine, in modo più seriale. Si è persa la magia, ma – dicevano – ci si guadagnava in termini di produzione e di grandi numeri.
Ma, appunto, la magia spariva e spariva pure quell’eccezionalità del pezzo unico, che poi, negli ultimi tempi, si è invece recuperata.
E allora le artigiane si sono fatte di nuovo avanti, spinte poi anche dal fatto che, andando sul realismo più pragmatico, di lavoro nelle aziende ce n’era sempre meno e costruirsi una propria strada poteva essere una buona (e rara) scelta professionale. Le donne italiane, per di più, sono poi state di recente incoronate come le più intraprendenti e sono più di 1 milione e 338mila le donne che svolgono attività indipendenti, un primato europeo.
E, in quest’orgia del Salone del Mobile di Milano, alle artigiane è stata dedicata un’intera mostra, DcomeDesign RELOADED ARTIERE_CRAFTSWOMEN, alla Biblioteca Umanistica di Santa Maria Incoronata, a Milano.
Un po’ artiste, un po’ designer, oggi sono chiamate «craftswomen», neologismo al femminile di «craftsman», un termine che vuole proprio qualificare e circoscrivere l’arte del saper fare, che sempre più sta conquistando terreno nei confronti del design prodotto in serie. Sanno coniugare l’aspetto più teorico e progettuale con una sapiente manualità, recuperando quelle consuete abilità femminili. E, allora, queste «mulier faber» propongono creazioni con tessiture, ceramiche, gioieli e bijoux.
Interessanti le commistioni che si possono creare mischiando tradizione e nuove tecnologie, così, per esempio, Sabrina Sguanci Baroni studia i rapporti tra materie ataviche come la ceramica e nuovi materiali, rielaborati attraverso lavorazioni hi-tech, la cosiddetta digital fabrication.
Dietro i prodotti delle donne è facile poi che ci siano convinzioni etiche e morali, portate avanti con le loro stesse imprese ad antichi saperi, si sovrappongono nuove filosofie. Così Francesca Tronca ha scelto come materiale d’elezione la canapa, per promuovere un progetto di moda a KmZero, dal filato al capo finito, mentre Guri I Zi sostiene l’empowerment delle donne albanesi che realizzano – rigorosamente a mano – a telaio di legno e con il ricamo, una linea di prodotti tessili per la casa.
Livia Crispolti, anche lei tra le protagoniste di questa esposizione, progetta realizza oggetti per il corpo e tessuti a metraggio in piccola serie, ed è lei a spiegarci meglio il mestiere delle nuove artigane.
Quando e come ha deciso che il suo «saper fare» poteva essere un lavoro vero e non un hobby?
«Sono stata educata fin dall’infanzia a capire quali cose mi fossero istintivamente più affini e mi è sempre piaciuto lavorare con le mani. In particolare la ricerca di una corrispondenza con la propria identità è l’insegnamento che ho ricevuto dalla mia famiglia d’origine, che oggi cerco di dare alle mie figlie. Non ho mai pensato alla mia attività come a un hobby, ma come a una necessità espressiva. La difficoltà è stata quella di dare concretezza a un desiderio, a un bisogno, di strutturarlo in una dimensione lavorativa. Fondamentale è stato l’incontro con persone che mi hanno aiutato a chiarire dei dubbi, a tracciare un percorso professionale non dilettantesco, così, progressivamente, ho trovato nel medium tessile una felice combinazione di istintività e riflessione, fantasia e progettualità, gioco e professionalità».
Domanda indiscreta: come vanno i guadagni?
«In continuo miglioramento, le possibilità sono infinite. Anche per la parte commerciale è necessario esercitare la fantasia e trovare nuovi canali di comunicazione e di distribuzione. Credo molto nel dialogo e nella capacità di unire competenze diverse per lavorare assieme su uno stesso progetto, credo nel gioco di squadra. Per questo concepisco il lavoro in una dimensione multiculturale e multidisciplinare, capace di dar vita a relazioni e dialoghi continui spesso insoliti».
Qual è il suo punto di forza?
«Da un punto di vista progettuale penso sia riuscire a interpretare in chiave contemporanea una tecnica antichissima come quella della tessitura, filtrandola attraverso una sensibilità e un immaginario personale, cerco di valorizzare le potenzialità espressive del mezzo tecnico. Prediligo una comunicazione iconica, visiva, organizzando forme, colori, materiali tra loro. Da un punto di vista produttivo penso sia la capacità di mettere assieme linguaggi e grammatiche differenti che si arricchiscono l’un l’altra. Del resto la tessitura è un’attività concettuale astratta che si serve di codici formali, è un linguaggio prima che una pratica. Il manufatto tessile, nella sua accezione di prodotto artigianale, artistico e industriale, è un oggetto, o meglio un’opera, limitata da vincoli tecnici e produttivi ma virtualmente priva di confini, che racchiude in sé saperi e competenze legati allo strumento, alle tecniche nonché alla cultura di appartenenza. Penso che i saperi tessili più ampiamente intesi siano un patrimonio culturale e gestuale operativo di immenso valore, da preservare e trasmettere alle nuove generazioni, soprattutto da filtrare e riproporre con uno spirito nuovo».
La difficoltà maggiore nel far stare in piedi una propria attività…
«Le difficoltà ci sono come per ogni ambito lavorativo. Penso tuttavia che le maggiori difficoltà nascano dal contesto legislativo che viviamo in Italia. Dall’incapacità, a livello amministrativo, di valorizzare e sostenere con politiche adeguate ambiti lavorativi dinamici e mutevoli come quello creativo, come accade invece in altri Paesi anche molto vicino a noi, penso alla Francia».
Esistono dei network attivi di donne artigiane in Italia?
«Sì fortunatamente esistono network nazionali e internazionali che sostengono e valorizzano il lavoro artigianale creando sistema attraverso una rete organizzata. Certamente l’Associazione DcomeDesign nata nel 2010 con lo scopo di promuovere e diffondere la creatività femminile attraverso l’ideazione e la realizzazione di mostre, eventi, ha un ruolo fondamentale per chi come me lavora al confine tra l’artigianato artistico e il design. Così come A.I. Artisanal Intelligence, piattaforma indipendente nata all’interno di Altaroma che combina la ricerca artigianale con la ricerca tecnologica dei materiali per definire nuove prospettive per la moda e per il design di domani.
A livello internazionale l’importanza dell’interculturalità, del confronto, della sperimentazione e dello scambio è rappresentata da Texere (Textile Education and Research in Europe), gruppo di lavoro dell’Associazione Etn (European Textile Network)».
E alla pensione ci pensa mai? Come se la sta «pagando»?
«Sono nata negli anni Settanta e cresciuta negli Ottanta. Faccio parte di quella generazione che forse non vedrà mai la pensione grazie a politiche miopi e scellerate di governi che hanno privilegiato interessi di parte rispetto a una visione solida e progettuale della società. Dunque prendo atto di ciò e mi organizzo in modo autonomo».
Qual è la manifestazione dove, in quanto artigiana-artista-designer, bisogna andare?
«Ritengo che non ci sia una manifestazione specifica, è importante cercare di frequentare il più possibile ambiti creativi e non solo, tutto sta ad esercitare lo sguardo, il saper vedere. L’educazione all’arte consente uno stretto rapporto tra intellettualità e manualità e contribuisce allo sviluppo di una personalità al tempo stesso critica e creativa. Ritengo anche che sia fondamentale uno stretto rapporto con la natura, si pensi a quanta ispirazione si può trarre dagli organismi naturali, mi riferisco all’approccio biomimetico nella progettazione».
A una ragazza giovanissima che volesse fare l’artigiana, a che cosa consiglierebbe di stare particolarmente attenta?
«Dal 2005 insegno Cultura tessile all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e da qualche anno Design della moda all’Università La Sapienza di Roma. Annualmente mi confronto con centinaia di studenti desiderosi di lavorare nel mondo creativo sia del fashion che dell’interior design come anche dell’artigianato artistico, e dico loro, preliminarmente, di avere un sogno, di puntare alla qualità del proprio operato che spesso non paga nell’immediato ma che alla lunga dà tutto un altro valore a ciò che facciamo. Dico loro di esercitare la pazienza e di imparare ad ascoltare e ad ascoltarsi. Ricordando il vecchio proverbio di Confucio che dice: se ascolto dimentico, se vedo ricordo, se faccio capisco. Soprattutto consiglio loro di non avere preconcetti, di imparare bene una tecnica e di esercitare il proprio spirito critico. Il saper fare è imprescindibile dal saper progettare. Le vere competenze, in questo ambito, si acquisiscono sul campo lavorando giorno per giorno, così come un contadino raccoglie ciò che ha seminato e quotidianamente lavorato. Nella consapevolezza che dita abili producono abilità di pensiero».
Vanity Fair