Bye-bye May? “Ho udito con chiarezza l’umore del partito. So che c’è il desiderio di un nuovo approccio e di una nuova leadership nella seconda fase della Brexit. Sono pronta a lasciare questo posto prima di quando intendessi, per il bene della nazione e del partito”. Theresa May preannuncia con queste parole le sue dimissioni. È il prezzo che i conservatori ultra brexitiani le chiedevano per appoggiare il suo accordo di uscita dall’Unione europea. La premier non fissa la data del suo addio, ma è verosimile che sarà prima dell’autunno. Potrebbe dunque chiudersi un ciclo. Ed è il via alla gara per la sua successione.
Naturalmente c’è un se di mezzo: la leader dei Tories promette di andarsene solo in cambio del sostegno alla sua Brexit. L’accordo frutto di due anni di negoziati con la Ue, poi bocciato due volte con massiccia maggioranza dalla camera dei Comuni, verrà probabilmente ripresentato venerdì in parlamento. Le indiscrezioni degli ultimi giorni indicavano già una maggiore possibilità che al terzo tentativo il suo piano passasse: “Non è un accordo che mi piace, ma è meglio della rinuncia alla Brexit”, ha dichiarato il deputato Jacob Rees-Mogg, uno dei capofila dei brexitiani duri e puri, più favorevoli a un “no deal” ossia a lasciare l’Europa senza accordi. Adesso la chance è ancora più grande, perché molti dissidenti avevano chiesto la testa del primo ministro, politicamente s’intende, come condizione per cedere e sostenere il suo piano.
Non è ancora detto che verrà approvato. Servono anche i voti del Dup, il piccolo partito unionista nord-irlandesi dai cui dieci parlamentari dipende la maggioranza di governo, finora contrario a qualunque concessione sull’accordo. E un pugno di conservatori più europeisti potrebbero ugualmente votare contro. L’esito della partita dipendeva anche dalle votazioni di questa sera su altre proposte: una soft Brexit, con permanenza nell’unione doganale o nel mercato comune; un secondo referendum, come chiesto dal milione di manifestanti che hanno marciato sabato nelle strade di Londra; la revoca della Brexit, come chiedono le 6 milioni di firme di una petizione.
Ma per il momento vengono tutte respinte. In teoria verranno ridiscusse lunedì, “se nel frattempo non sarà stato approvato l’accordo di Theresa May”, dice il deputato Oliver Letwin. Benché si tratti di votazioni indicative, non vincolanti per il governo, potrebbero contribuire a spingere i brexitiani a votare per l’accordo May come il minore dei mali.
Toccherebbe poi al suo successore di decidere la strada del futuro, nella seconda fase del negoziato, quella sulle future relazioni fra Londra e l’Europa, destinata a durare almeno altri due anni. Se Theresa May si dimetterà, in lizza per rimpiazzarla ci sono mezza dozzina di Tories, con l’ex-ministro degli Esteri Boris Johnson dato favorito dai sondaggi. Dopodiché per il Regno Unito potrebbero esserci elezioni anticipate, con una sfida tra Johnson e il laburista Jeremy Corbyn per il potere e per il futuro dei rapporti con il continente. Ma intanto, con il “sacrificio” delle dimissioni della premier, questo paese potrebbe essere finito fuori dalla Ue.
Enrico Franceschini, Repubblica.it