Quella di ieri è stata una giornata storica per l’opera lirica. È dal 1637, quando aprì a Venezia il San Cassiano, la prima sala pubblica, non di corte, che un teatro d’opera rifiuta i soldi di un mecenate. Si tratta dell’ennesimo record della Scala, un capolavoro di autolesionismo: no a 22 milioni di euro offerti dai sauditi perché brutti e cattivi (i sauditi, non i milioni). Quanto ad Alexander Pereira, è il primo sovrintendente della storia a rischiare la poltrona per aver trovato dei soldi invece che per averne spesi troppi.
Trionfa una doppia ipocrisia politica, ovviamente bipartisan. Prima ipocrisia: non si capisce perché, se l’Arabia Saudita è così impresentabile, l’Italia possa avere relazioni diplomatiche e commerciali con lei, ma la Scala no. A Riad si possono fare affari; avere Riad come sponsor, no. Lì possiamo vendere armi, non aprirci un Conservatorio. Come se fosse poi l’unico Paese discutibile in materia di diritti umani con cui si lavora. Ipocrisia numero due: negli ultimi decenni, con tutti i governi, di destra e di sinistra e di centro, politici e tecnici, il Fus, Fondo unico per lo spettacolo, è costantemente sceso fino quasi a dimezzarsi. Comodissimo, per la politica, dire che i teatri si devono arrangiare (tralasciando beninteso il fatto che non possono, perché l’opera o viene sovvenzionata o non si fa) e trovarsi i soldi; bizzarro, se ci riescono, strillare perché la pecunia olet.
Adesso i sauditi andranno a ripulirsi l’immagine a Parigi o a Vienna. Per loro cambia poco. Non cambia nemmeno, purtroppo, il dibattito pubblico italiano, ridotto a una gara a chi urla più forte slogan basici. Con lo stesso desolato divertimento di Flaubert quando origliava di nascosto la conversazione tutta luoghi comuni di due imbecilli, siamo stati sommersi dalle dichiarazioni imperative di chi in un teatro d’opera non è mai entrato e non distingue un soprano di coloratura da un basso profondo. Tutte con il punto esclamativo: il tempio della lirica è in pericolo! Stanno svendendo la Scala (per un posto su undici nel CdA?)! Le signore dovranno andarci velate (beh, in certi casi di eccessi plastici potrebbe non essere una cattiva idea)!
Intanto il ministro Bonisoli diventava improvvisamente trasparente e imperversavano discorsi da Bar Sport, slogan prêt-à-penser, banalità politicamente corrette, piccoli personalismi, comizi dalla sintassi incerta. Come se la Scala, la più importante istituzione culturale italiana, e di certo la più celebre del mondo, fosse un’Asl di provincia. Certo, Pereira ha fatto pasticci. Ma nessuno, nella cosiddetta classe dirigente, ha approfittato dell’occasione per discutere seriamente un’idea, una strategia, un modello di sviluppo per la Scala, o anche soltanto per dire: facciamoci un parcheggio.
Una pagina avvilente, per un teatro che bisognerebbe preservare dal piccolo cabotaggio politico, un’istituzione che dovrebbe restare super partes, come il Quirinale o la Banca d’Italia o l’Arma dei carabinieri. Nessuno ha pensato anche solo per cinque minuti al bene della Scala, ai suoi programmi, alle sue necessità finanziarie, al suo ruolo internazionale, a come preservare questo simbolo amato, prezioso, fragile, costoso e importantissimo della civiltà italiana.
Alberto Mattioli, La Stampa