Pagare “il giusto” un dipendente è un fattore necessario per avere un lavoratore motivato, ma non più sufficiente. Il concetto è ben noto agli esperti delle risorse umane, che sanno bene come uno stipendio inadeguato sia causa di “demotivazione” per una risorsa, ma non è altrettanto detto che la voglia di fare in azienda cresca proporzionalmente alla busta paga.
Ciò premesso, resta grave la situazione tra le mura delle società se si guarda alla “pagella” che gli italiani stilano delle loro buste paga. Una osservazione che arriva dal Salary Satisfaction Report, elaborato dall’Osservatorio JobPricing con Spring Professional attraverso 2mila questionari online. “Solo il 41% dei lavoratori dà un giudizio di soddisfazione e solo il 3,4% dichiara di essere pienamente soddisfatto, mentre ben il 20,6% dichiara, all’opposto estremo, di esserne fortemente insoddisfatto”, dice il rapporto. Nonostante il trend sia in leggero miglioramento negli ultimi quattro anni, il voto secco rappresenta una bocciatura degli stipendi: alla domanda su “quanto sei soddisfatto in generale del tuo pacchetto retributivo?” i dipendenti del settore privato rispondono 4,1 punti su 10.
Ovviamente la media complessiva nasconde diverse sfumature, che l’analisi mette a fuoco. Se il pacchetto retributivo prevede infatti sistemi d’incentivazione individuali, il giudizio sale alla sufficienza. La musica poi cambia a seconda dell’inquadramento e vede – senza sorprese – raccogliere maggiori note positive tra i dirigenti: con un un punteggio lievemente positivo (5,4) “sono gli unici che risultano soddisfatti del proprio pacchetto retributivo, seguono quadri che sfiorano la sufficienza con un punteggio di 4,9 e impiegati a 3,7”. Analizzando poi le variabili che riguardano la geografia del lavoro e la dimensione aziendale, si scopre che i valori minimi di soddisfazione si registrano a sud o nelle isole (3,3), nelle piccole imprese (3,8) e nel settore commercio e servizi (3,8).
Da dove deriva questa insoddisfazione? Alessandro Fiorelli, ceo di JobPricing, spiega come sia “il merito, ancora una volta, il nervo più scoperto: la percezione è che aumenti retributivi, gratifiche, bonus, possibilità di carriera e via dicendo non vadano ai ‘migliorì e questo risulta coerente con lo scarso livello di fiducia e di comprensione che i lavoratori hanno rispetto alle politiche retributive dei loro datori di lavoro”. Infatti il report indica come la percezione di equità interna scenda sensibilmente, con 4,6 punti e mezzo punto sotto il dato del 2018. Ma è proprio alla voce “meritocrazia” che si registra il giudizio peggiore, con 3,6 punti su dieci che sono una bocciatura sonante: un dipendente su tre lamenta una totale mancanza di criteri meritocratici nell’assegnazione delle remunerazioni.
“Dallo studio”, spiega ancora Fiorelli, “emerge chiaramente come gli elementi intangibili e non monetari (relazioni coi capi e coi colleghi, ambiente di lavoro, worklife balance, welfare) siano in costante crescita come elementi di soddisfazione cruciali per la scelta e la permanenza in un luogo di lavoro. In quest’ottica, si conferma che è ormai imprescindibile pensare alle “ricompense” piuttosto che allo “stipendio” e questo, mi pare, dovrebbe spingere ad una forte innovazione in materia di negoziazione salariale, dove forse il menù “fisso” dovrebbe cedere il passo ad un menù più “alla carta”, rendendo per altro più contemporaneo il principio di proporzionalità della retribuzione previsto dall’articolo 36 della Costituzione. Per troppo tempo si è pensato che la “personalizzazione” e “differenziazione” dei pacchetti retributivi fosse più un problema che un’opportunità, ma le opinioni dei lavoratori sembrano dirci una cosa diversa”.
Raffaele Ricciardi, Repubblica.it