C’è uno schema Ponzi 4.0 dietro il Bitcoin? Lo scorso maggio Warren Buffett — dunque prima che si arrivasse a questa disastrosa chiusura d’anno per la criptomoneta passata dai 12.253 dollari del 2 gennaio ai 4.000 di questi giorni — aveva detto: il Bitcoin? «Probabilmente è veleno per topi al quadrato». Si tratta «di un asset che di per sé non sta creando nulla. Quando si comprano asset non produttivi, tutto quello su cui si conta è che ci sia qualcuno che paghi di più perché è ancora più entusiasta». Sembra la descrizione del famoso cerino acceso. A chi resterà in mano? Molti piccoli risparmiatori sono tra coloro che sentono la puzza di bruciato. Ma a volere essere sinceri la stessa cosa — l’inconsistenza dell’asset sottostante — si potrebbe dire per tanti altri investimenti legati ormai da tempo a una finanza dopata. Anche per gli immobili o i giocatori di calcio. Dunque non può essere tutto qui.
In effetti, trattandosi di un oggetto che non ha paragoni, una moneta creata da un algoritmo e non da un soggetto sovrano, non possiamo ragionare solo in termini tradizionali di asset o di finanza. Il segreto o il trucco sono da ricercarsi nel profondo della tecnologia, alla base di quel sistema modellato ufficialmente per affrancare la moneta da qualunque governo centrale. Non tutti sanno che l’algoritmo che regola la produzione della quantità di criptovaluta in circolazione — la potremmo definire la politica monetaria del bitcoin — si basa su un rebus che i computer collegati nelle cosiddette miniere devono risolvere. Ora il punto è che i primi rebus del 2009-2010, quando il bitcoin venne creato dal fantomatico Sakamoto (negli anni si sono susseguite le ipotesi più strampalate , vedendo nel padre dei bitcoin tutti, da Elon Musk al Vaticano), erano molto semplici. Risolvibili in sostanza con una macchina portatile che, collegata a uno dei software come BtcMiner o CGMiner, permetteva di coniare il proprio soldino o porzione di soldino. Oggi, anni dopo, quei rebus sono diventati dei rompicapo anche per i computer più potenti. E se si collega tutto ciò alla Legge di Moore, secondo cui la capacità di calcolo raddoppia all’incirca ogni 18-24 mesi, si arriva alla conclusione che le promesse delle origini oggi non possono più essere rispettate, anche se continuano ad alimentare il mito della ricchezza facile.
È previsto fin dall’inizio che il numero massimo di monete in circolazione debba essere 21 milioni, ora siamo oltre la metà. Nei primi 4 anni di vita (dal 2009 al 2013) la rete di tutti i computer collegati tra di loro per il conio produceva 50 monete ogni 10 minuti. Oggi se ne producono meno di 25 in 10 minuti e il numero di computer collegati è cresciuto esponenzialmente. Si sono ormai persi i tempi in cui il primo miner, secondo i racconti del web, avrebbe estratto 25 bitcoin da solo risolvendo i primi facili rebus (al cambio odierno sarebbero circa 100 mila dollari).
C’è di più: rebus più complicati richiedono non solo maggiori investimenti in tecnologia per partecipare al conio, ma sono anche più energivori, tanto che oggi produrre bitcoin su piccola scala con il computer di casa non conviene automaticamente, a meno che non si punti a un rialzo speculativo delle quotazioni. Con il costo dell’energia in Italia poi la faccenda è ancora più complicata: a causa della complessità del rebus un normalissimo pc acceso 24 ore su 24 produce circa 10 centesimi di euro al giorno. Ma un computer consuma in media 30 watt/ora e moltiplicando per 24 si ottengono 720 w/ora ovvero 0,72 kwh. Per un kwh un consumatore domestico spende circa 17 centesimi di euro, quindi per 24 ore si spendono 12-13 centesimi di euro.
Dunque forse il gioco vale la candela nei momenti di picco delle valutazioni, ma il rischio di trovarsi a lavorare per la ricchezza altrui è molto alto. In questo senso il rebus che rende più complicato la produzione di bitcoin può essere interpretato anche come un sistema automatico che calmiera la corsa al conio, riducendo l’offerta nei momenti di picco della domanda. Ma allo stesso tempo, vedendola in prospettiva, potrebbe anche essere un sofisticato metodo Ponzi per far sì che i primi miners siano i più ricchi e gli altri solo dei follower dei loro sogni. Certo, l’operato di Carlo Ponzi, passato alla storia con il suo nome americano Charles Ponzi, è stato più esplicito. Ponzi aveva imparato il metodo da un altro connazionale che aveva la cattiva abitudine di truffare gli italiani all’estero, Barozzi, presso il quale aveva lavorato in Canada. Il Banco Barozzi era finito in bancarotta una volta scoperta la truffa. Ma Ponzi semplicemente cambiò area e si costruì un nome in California.
È lì che raccolse una fortuna dagli italiani di San Francisco raccontando che guadagnava facendo arbitraggio sui buoni per l’acquisto di francobolli. Nel 1920 Ponzi arrivò ad avere diversi milioni fino a quando alcuni giornali (gli stessi che oggi si dice non servirebbero più al corretto funzionamento della democrazia) iniziarono a notare che ci sarebbero voluti 160 milioni di buoni per sostenere gli affari che Ponzi diceva di avere. Peccato che ne fossero stati stampati solo 27 mila. In questo caso un Mister Ponzi chiaramente non esiste. Anche se i primi furbi investitori finanziari come i gemelli Tyler e Cameron Winklevoss, quelli della causa a Zuckerberg per Facebook, sono diventati ufficialmente nel 2017 i primi «miliardari» in bitcoin. Mentre per i piccoli minatori o risparmiatori la storia potrebbe essere molto diversa. A meno che non vi piaccia il rischio. Ma molto.
Massimo Sideri, Corriere.it