Donne impegnate in politica e nel giornalismo hanno subito insulti su Twitter ogni 30 secondi, nel 2017. A rivelarlo è quello che il Financial Times definisce «lo studio più ampio mai fatto» sul discorso di odio contro le donne online, secondo il quale inoltre quelle di colore hanno più probabilità di essere prese di mira.
La ricerca è stata promossa da Amnesty International e da Element AI, una start-up di software di intelligenza artificiale, ed è stata condotta da 6 mila volontari in tutto il mondo, debitamente istruiti sulla definizione di quali contenuti dovessero essere considerati offensivi perché mossi da discorsi legati a genere, razza e sessualità; sulla base delle indicazioni ricevute, questo esercito di volontari ha esaminato 300 mila tweet, in cui si menzionavano 778 donne, da una lista precisa. Element AI ha poi estrapolato i dati sulla scala degli abusi che le donne hanno subito e ha sviluppato un’app per individuare i tweet violenti.
La ricerca ha stabilito che queste donne – la lista comprende tutte le parlamentari britanniche, i membri del Congresso Usa e diverse giornaliste – hanno ricevuto in totale 1,2 milioni di tweet offensivi. Per le donne di colore la possibilità di diventare obiettivo di discorsi di odio è quasi il doppio di quella delle loro controparti bianche. Diane Abbott, il ministro ombra laburista per l’Interno, è la donna britannica più colpita, con 30 mila tweet violenti che la citano.
«Abusi di questo genere limitano la libertà di espressione online delle donne», ha denunciato Milena Marin, senior advisor for Tactical Research per Amnesty International. «Abbiamo i dati per confermare quello che le donne ci stanno dicendo da tanto: che Twitter è un luogo dove a razzismo, misoginia e omofobia è permesso di proliferare per lo più senza controllo», ha aggiunto Marin. A suo dire, Amnesty è da tempo in contatto con Twitter a cui chiede trasparenza sui dati relativi agli abusi verbali, «ma si comportano come dei guardiani». «Non penso che sia compito di Amnesty analizzare le violenze su Twitter – ha concluso la ricercatrice – ma non avevamo scelta».
La Stampa