Senza andare troppo lontano basterebbe fare una passeggiata per il centro storico della Capitale e contare il numero delle chiese che non vengono più utilizzate, da anni desolatamente chiuse per mancanza di fedeli e sacerdoti. Edifici consacrati ma totalmente inattivi. A Roma, come altrove, in un futuro prossimo, è possibile che possano essere alienati dal patrimonio ecclesiale e destinati ad altri usi. Il dilemma che si sta ponendo il Vaticano è con quale criterio procedere e che indirizzo unitario dare a tutte le conferenze episcopali d’ Europa che, per forza di cose, vista la secolarizzazione galoppante della società, si trovano ad affrontare. Se tanti edifici di culto finiranno per essere venduti che uso finale dovrebbero avere? Papa Francesco valuta con filosofia il fenomeno, forse perché sa che il cristianesimo nel Vecchio Continente è destinato a diventare una minoranza. Tanto vale affrontare con buon senso e lungimiranza la questione. «Bisogna constatare che molte chiese fino a pochi anni fa necessarie, ora non lo sono più, per mancanza di fedeli e di clero, o per una diversa distribuzione della popolazione della popolazione nelle città e nelle zone rurali; questo va accolto nella Chiesa non con ansia, ma come un segno dei tempi».L’indicazione che ha dato al summit dei rappresentanti delle 23 conferenze episcopali riuniti alla Gregoriana su iniziativa del cardinale Gianfranco Ravasi – proprio per individuare uno spazio sicuro entro cui muoversi – è comprensiva di alcuni punti fermi. La prima regola individuata è che «i beni culturali sono finalizzati alle attività caritative svolte dalla comunità ecclesiale», il che significa, che «essi non hanno un valore assoluto: e in caso di necessità devono servire al maggior bene dell’essere umano e specialmente al servizio dei poveri». Vendere, dunque, non è di certo un tabù ma, naturalmente – seconda regol individuata – la «dismissione non deve essere la prima e unica soluzione». In ogni caso sulle chiese vuote è necessaria una valutazione in una prospettiva ben più ampia del solo ritorno economico. Il sociologo Luca Diotallevi ha pochi dubbi sul fatto che per il Vaticano si tratta di un problema scottante considerando che da tempo parecchie chiese continuano ad essere chiuse. «Si sta verificando una generale trasformazione urbana con lo sviluppo di nuovi contesti urbani e delle città globali. Questa è una questione civile che si riflette nelle chiesa mentre emergono nuove società senza stato». In Italia il discorso delle dismissioni è ancora solo una prospettiva.
La Cei in questi anni ha fatto un censimento piuttosto dettagliato tra le oltre 200 diocesi, mappando la presenza di ogni edificio parrocchiale, comprese le pievi e le chiesine di campagna, per un totale di 67 mila chiese sparse in tutta la penisola. Don Valerio Pennasso, direttore dell’Ufficio nazionale per l’edilizia di culto, uno dei relatori al summit vaticano, chiarisce subito che l’approccio con il quale è stato fatto il censimento è per una valorizzazione del patrimonio. Come dire che al momento nessuno ha ancora pensato a dismissioni. La cosa buffa è che ad oggi il numero definitivo delle chiese in Italia resta pressoché sconosciuto nella sua interezza. Un mistero persino per il Papa visto che gli ordini religiosi (anch’essi proprietari di una infinità di pievi, conventi, chiese) non hanno voluto partecipare e aderire al censimento fatto dai vescovi italiani, rivendicando la propria autonomia gestionale nella amministrazione e conduzione del proprio (immenso) patrimonio immobiliare.
Franca Giansoldati, Il Messaggero