Il mito circolava da tempo ed è stato confermato dal Quotidiano del Popolo, in una gallery dedicata ai cento uomini che hanno fatto grande il Dragone
La voce circolava da tempo, sempre ripetuta, mai confermata. E invece è proprio così: Jack Ma, il fondatore di Alibaba, il più ammirato imprenditore cinese, è un membro del Partito comunista. A metterlo nero su bianco è il giornale che di quel Partito è massima espressione, il Quotidiano del Popolo, in una gallery dedicata ai cento uomini che hanno fatto grande il Dragone. Una notizia destinata a influire non poco l’immagine pubblica di Maestro Jack e di Alibaba. Non tanto per l’affiliazione politica in sé, tutto sommato diffusa in Cina, anche tra gli imprenditori privati (un terzo dei quali avrebbero la spilla rossa). Quando per i modi e i tempi in cui viene rivelata, nel mezzo della sfida di potenza contro gli Stati Uniti e quando Ma ha annunciato che il prossimo anno lascerà la guida dell’azienda. Un segno del crescente controllo esercitato dal Partito sul capitalismo cinese. Fino ad oggi infatti Jack Ma, l’uomo che si è fatto da solo imparando l’inglese dai turisti di Hangzhou, aveva fatto di tutto per dare al mondo l’impressione di una “giusta distanza” dalle autorità. Del governo “bisogna innamorarsi, ma senza sposarsi”, aveva detto nel 2015 di fronte alla platea internazionale del World Economic Forum. “L’impressione era che lasciare questa cosa nell’ambiguità fosse il meglio per il suo profilo e le sue ambizioni internazionali”, dice al Wall Street Journal Duncan Clark, autore di un libro sulla storia di Alibaba. Anche per questo, oltre che per la sua affascinante storia di ascesa personale, Ma si è imposto come uno dei pochi imprenditori cinesi, se non l’unico, in grado di parlare a due mondi, ammirato in uguale misura in patria e all’estero.Ma quello era il Vecchio Mondo. Quello Nuovo è sempre più nettamente diviso in due: Stati Uniti contro Cina. E dove Ma si volesse (o dovesse) schierare era sempre più evidente negli ultimi tempi. Dopo che la Casa Bianca ha negato alla sua Alipay l’acquisizione di Moneygram, colosso americano delle rimesse, Maestro Ma ha ritirato la promessa fatta a Trump di creare un milione di posti di lavoro negli Stati Uniti. Per poi definire “stupida” la guerra commerciale.Quanto per convinzione e quanto per realismo, è difficile da dire. Nella paranoica e dietrologista Cina di questi tempi, la sua uscita da Alibaba, annunciata per il prossimo settembre, ha sollevato più di un interrogativo. C’è di mezzo in qualche modo la mano del Partito, infastidito da un profilo troppo ingombrante? Jack Ma vorrà davvero ritirarsi a una vita di privata beneficenza? Riuscirà a farlo? Di certo in questo momento al Partito poter enumerare un personaggio del genere tra i “suoi” è una grande vittoria, per due motivi paradossalmente quasi opposti. Mostra che il settore privato cinese sta dalle parte delle autorità e che perfino il suo esponente più illustre ci deve necessariamente stare. A Ma invece la spilletta rossa costa non poco, in termini di immagine e di portafoglio, visto che tutti i membri devono versare il 2 per cento dei guadagni alla causa. Forse però vale come un’assicurazione di intoccabilità nel momento in cui lascerà Alibaba.Ma la lascerà per davvero? Questa è l’altra domanda che circola nelle ultime settimane. L’affiliazione politica di Ma getta una luce inquietante a ritroso sulla storia dell’azienda, della sua crescita e della sua quotazione in Borsa, quando non fu dichiarato alcun legame con il Partito. “L’affiliazione politica dei manager non influenza il processo decisionale interno”, ha detto un portavoce di Alibaba. Ma essere iscritti al Partito comunista cinese significa, per statuto, dare assoluta priorità ai suoi interessi. Cosa che per inciso Ma potrebbe continuare a fare anche dopo settembre, visto che manterrà il suo posto nel discusso consiglio di saggi che sceglie la maggioranza del board di Alibaba.
Filippo Santelli, repubblica.it