Dopo l’operazione Cristiano Ronaldo alla Juventus, un deal da 340 milioni di euro spalmati in quattro anni e dettato principalmente da motivazioni commerciali più che da esigenze sportive, anche i pochi italiani convinti che il calcio fosse essenzialmente un gioco si sono dovuti ricredere. E il bilancio integrato 2017 della Figc (Federazione italiana giuoco calcio), presentato ieri a Milano, snocciola una serie di dati impressionanti a questo proposito: il fatturato totale 2017 del calcio italiano è stato pari a 4,5 miliardi di euro, di cui 3,4 miliardi dal calcio professionistico (Serie A-B-C), per un indotto complessivo che sale a 18,1 miliardi di euro e che colloca il pallone tra le prime dieci industrie in Italia.
Pazzesco il giro vorticoso di soldi che il calcio scatena con le scommesse: nel 2017 sono stati raccolti 8,1 miliardi di euro in scommesse sul pallone in Italia (il 73% della raccolta totale delle scommesse sportive), che crescono a 25,4 miliardi di euro di scommesse sulla Serie A nel mondo.
Il calcio italiano rappresenta il 35% del volume di affari totale dell’area spettacolo sulla Penisola (il cinema è all’11%, il teatro al 7%), e l’81% del volume d’affari di tutto lo sport italiano. Ha pure un suo notevole peso a livello internazionale: vale l’11,8% del pil mondiale del calcio.
E solo dal sistema previdenziale e fiscale lo stato incassa ogni anno oltre 1,1 miliardi di euro dal pallone, dove ogni euro investito dal governo ha un ritorno in termini fiscali e previdenziali pari a 14,4 euro.
Certo, il business calcistico professionistico dipende ancora troppo dai diritti tv, che sui 3,4 miliardi di ricavi annui valgono il 38%. A seguire i ricavi da plusvalenze sulle cessioni dei calciatori, che pesano per il 22%, e quindi gli sponsor (16%), lo stadio (8%, molto basso), i contributi pubblici (4%, e scesi di 50 milioni negli ultimi cinque anni), e altre voci minori (12%).
Ma la solidità dei club, da un punto di vista dell’equilibrio costi-ricavi e da quello della patrimonializzazione, sta migliorando parecchio da quando, come ricorda Michele Uva, direttore generale della Figc, la Uefa ha introdotto il sistema delle licenze nel 2003 (riguardava, però, solo le squadre che partecipavano alle coppe europee), poi recepito nel 2009 anche in Italia dalla Figc per tutti i club. Nel 2010, inoltre, la Uefa è partita con le regole del Fair play finanziario, portate pure in Italia, per tutti i club, dalla Figc nel 2015. Dal giugno 2018, infine, la Uefa ha rinnovato i paletti del fair play, avviando il cosiddetto Financial fair play 2.0.
«Un combinato disposto di norme che, dal 2015 a oggi, ha migliorato nettamente gli indici di liquidità, di indebitamento e di costo del lavoro allargato dei club italiani», ribadisce Uva, che è pure vicepresidente Uefa e presidente della commissione licenze Uefa, «con un calcio professionistico tricolore che è passato dai 530 milioni di euro di perdite complessive nella stagione 2014-2015 ai -156 milioni di quella 2016-2017. Da nostre stime, la stagione 2019-2020 vedrà un sistema calcio produrre, finalmente, degli utili».
E poi, comunque, il calcio piace tanto agli italiani: 1,4 milioni di tesserati, 4,6 milioni di praticanti, 28 milioni di persone interessate a questo sport, che in tv stravince per distacco, ingaggiando il 66% degli italiani, davanti a tennis (24%), volley (23%), basket (22%), nuoto (21%), Formula Uno (19%), moto (19%), atletica (16%), ciclismo (11%).
Tra i 50 programmi in tv più visti nella storia del piccolo schermo italiano ci sono 49 partite di calcio, di cui 45 nella Nazionale.
A condurre la classifica resta la semifinale Italia-Argentina dei Mondiali 1990: 27,5 milioni di audience per un 87,25% di share. L’audience televisiva cumulata 2017 della Nazionale italiana nel mondo vale circa 2 miliardi di persone. E per questo, ricordano dalla Figc, la squadra degli Azzurri può essere considerata tra i più potenti veicoli di promozione internazionale del made in Italy.
Italia Oggi, Claudio Plazzotta