Una lettera di Cupertino torna a confermare l’infondatezza del “big hack” cinese sulle schede madre Supermicro. E le agenzie governative sembrano credere ai colossi tirati in ballo dall’inchiesta di Bloomberg
LA RASSICURAZIONE è totale: “Mai trovati chip spia cinesi nei nostri server”. Dopo l’inchiesta di Bloomberg della scorsa settimana, che avrebbe individuato l’operazione di agenti cinesi nelle fabbriche della Repubblica popolare al fine di manomettere decine di migliaia schede madri utilizzate nei server sfruttati da molti colossi del web, Cupertino corre ai ripari. In una lettera a deputati e senatori Apple ribadisce la sua posizione, cioè quella di non aver mai scoperto simili manomissioni ai pezzi acquistati dall’azienda Supermicro per le proprie data factory e per altri servizi, né di averne trovate in seguito.
L’enorme operazione di spionaggio ai danni di diverse aziende statunitensi, passata dall’inserimento di un insospettabile?chip spia delle dimensioni di una punta di matita?sulla scheda madre dei server, non riguarderebbe insomma il colosso degli iPhone. Nella lettera, ottenuta da Reuters e firmata da George Stathakopoulos, vicepresidente della mela per la sicurezza, si legge che “gli strumenti proprietari di sicurezza di Apple controllano continuamente il traffico in uscita per questo genere di rischi, alla ricerca di malware o altre attività malevole. Nulla è mai stato individuato”.
Nella comunicazione spedita alle commissioni Commercio sia della Camera che del Senato il top manager del gigante tecnologico ripete anche che Apple non ha mai contattato l’Fbi su un tema del genere, come invece sostiene Bloomberg citando numerose fonti interne informate sui fatti, e ha ribadito la disponibilità a informare di persona il Congresso nei prossimi giorni. A caldo, Apple aveva risposto che quando Bloomberg Businessweek aveva chiesto un commento alla società nei mesi scorsi “era partita una rigorosa investigazione basata su quelle domande” senza che ne uscisse nulla di significativo. A quanto pare le agenzie governative statunitensi e britanniche sembrerebbero credere alle versioni rassicuranti dei colossi teoricamente coinvolti dal “big hack”.
Repubblica