C’era una volta la diplomazia del ping-pong, quella che per mezzo di racchette e palline pacificò l’America di Nixon e la Cina di Mao.
Adesso Washington e Pechino sono come due pugili incarogniti che si scambiano colpi sotto la cintola. Di un break, manco a parlarne. Tornato a indossare i guantoni, Donald Trump ha rifilato all’avversario un gancio da 200 miliardi di dollari sotto forma di altri dazi sull’import del Dragone destinati a entrare in vigore il 24 settembre. Per tutta risposta, l’ex Celeste Impero ha sferrato un uppercut da 60 miliardi sulle merci a stelle e strisce, minacciato di annullare il nuovo round di negoziati già in calendario e presentato al Wto, l’organizzazione mondiale del commercio, un ricorso contro gli ultimi provvedimenti protezionistici presi dagli Usa.
Mentre la leader del Fmi, Christine Lagarde, teme uno «choc» per le economie emergenti, dopo mesi in cui la tensione tra i due colossi è montata come una marea, adesso il combattimento è di quelli da «vediamo, alla fine, chi resta in piedi». Wilbur Ross, segretario americano al Commercio, sa già come andrà a finire: l’America non finirà al tappeto perché i cinesi «hanno finito i proiettili». Vero? Forse no, visto che Pechino custodisce buona parte del debito federale Usa e potrebbe ostacolare le corporation a stelle e strisce che hanno delocalizzato sul suo suolo. A cominciare da Apple.
Anche The Donald non appare preoccupato dalle ultime misure punitive decise dai rivali (che includono generi alimentari, articoli di elettronica e per la casa), che andranno a toccare le tasche degli americani a pochi mesi dall’appuntamento con le elezioni di mid-term. Anzi, proprio il voto di metà mandato viene tirato in ballo dal tycoon per dare un avvertimento ai cinesi: «La Cina – ha cinguettato Trump – ha dichiarato che sta attivamente cercando di influenzare e cambiare il voto attaccando i nostri agricoltori, allevatori e operai delle industrie a causa della loro lealtà nei miei confronti. Ci saranno ritorsioni economiche rapide e notevoli se i nostri agricoltori, allevatori e/o lavoratori industriali verranno presi di mira». La Casa Bianca ha già in canna l’arma definitiva, quella che colpirà il 100% delle importazioni cinesi: un’ennesima tornata di dazi, per un controvalore di 267 miliardi.
L’esito del voto di novembre potrebbe però determinare un cambio di passo nelle relazioni commerciali tra i due Paesi. Alcuni osservatori sostengono infatti che l’inquilino della Casa Bianca non sia ancora pronto per siglare un accordo e che la linea dura sia il grimaldello con cui alimenta i consensi nella sua base elettorale per limitare il rischio di perdere il controllo della Camera. Proprio per questo motivo a Pechino c’è chi spinge per rimandare i negoziati dopo le elezioni di medio termine. Con un quadro più sereno, i margini di trattative potrebbero del resto allargarsi. E la Cina ha tutto l’interesse a spuntare un accordo in virtù degli oltre 500 miliardi di dollari di merci esportate lo scorso anno negli Stati Uniti, una cifra quattro volte superiore ai prodotti made in Usa che hanno superato le dogane cinesi.
Il conto dei danni provocati dalle continue ritorsioni sta intanto aumentando: secondo la Camera di commercio dell’Ue in Cina, il 10% dei membri intervistati ha già spostato la produzione dagli Stati Uniti, dalla Cina o da entrambi i Paesi, mentre il 17% ha rinviato gli investimenti programmati a causa delle tensioni commerciali.
Rodolfo Parietti, Ilgiornale.it