Il ribelle che scoprì il calcio giocando al buio di notte
L’ex campione della Juve: «Senza luce ho imparato a sentire in anticipo l’avversario» Strafottente e aggressivo, venne inseguito negli spogliatoi da un arbitro inferocito
(di Cesare Lanza per LaVerità) Come John Charles, di cui ho già scritto, anche Enrique Omar Sivori fa parte dei ricordi della mia remota giovinezza. Con John Charles, Sivori, tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, formò un’indimenticabile coppia di attaccanti della Juventus. John era gallese, un gigante, correttissimo in campo e fuori, equilibrato: non una squalifica o un’ammonizione in tutta la carriera. Omar era argentino, piccolo, impertinente e provocatore: un attaccabrighe che collezionò decine di squalifiche. La strana coppia entrò nella storia del calcio: popolarissima per la loro amicizia, l’opposto temperamento, la qualità atletica e il vigore fisico di Charles, l’estro impertinente e i dribbling di Omar.
Sivori aveva un carattere fumantino, irriverente: contestava le regole e la disciplina, si inebriava con le sfide. Certamente un esibizionista. Un narcisista. Uno spirito libero, di radice anarchica.
Scatenava le risse in campo commettendo incredibili fallacci. In 12 anni di carriera in Italia gli sono state inflitte 33 giornate di squalifica. Ma non era conciliante e disciplinato neanche con i compagni di squadra, i dirigenti e gli allenatori. Nella Juve, dopo stagioni da favola (e addirittura contro il parere di Gianni Agnelli), l’allenatore Heriberto Herrera pretese che fosse ceduto: non sopportava le sue polemiche e le ribellioni, anche strafottenti. E la sua vita privata da dandy: poker, whisky e sigarette. Nel 1967, con la maglia del Napoli, si infortunò a un ginocchio e giocò poche gare. Infuriato, si esibì in scenate clamorose contro l’allenatore Bruno Pesaola. Fu punito con un milione di lire di multa, all’epoca circa dieci stipendi di un comune lavoratore.
In campo, quando era in possesso del pallone, non se ne liberava volentieri, e questo spesso provocava il nervosismo dell’allenatore e la contrarietà dei compagni di squadra di maggior personalità (nella Juve, erano note le frizioni con il capitano Giampiero Boniperti). E lui stesso si faceva un vanto dei suoi eccessi e dei vezzi estetici. «Giocavo con i calzettoni abbassati, arrotolati sulle caviglie. I difensori dovevano capire da subito che, anche se ero Piccolino, nessuno ma davvero nessuno mi faceva paura». I calzettoni «alla cacaiola»: così fu definito il suo modo di portarli («Per fastidio»!) senza proteggere gli stinchi.
Sivori si allenava quando e come voleva lui, mangiava e beveva quel che voleva lui, andava a dormire agli orari che preferiva. E d’abitudine era scontroso, o sgarbato: «Non lo vedi che ho da fare?», diceva al povero cronista (capitò anche a me, più di una volta) che aveva il compito di intervistarlo. Però era anche generoso, coraggioso, incontenibile; e la sua libertà e fantasia incantavano gli spettatori.
Il 2 giugno del 1959, durante la partita Lazio-Juve (1-0), Sivori si scontrò con l’arbitro francese Jean-Louis Groppi. In un’intervista commentò così: «Eh, quella volta fui molto sfortunato. L’arbitro ne aveva combinate di tutti i colori, anche se lo ricordo vagamente. Si giocava all’Olimpico. Alla fine, lo insultai in spagnolo, ma quello capì tutto. Il signor Jean-Louis Groppi, un sergente dell’esercito in congedo, era un bestione: mi mise le mani addosso e io corsi a rifugiarmi nello spogliatoio. Lui fece una scena pazzesca, finché mi raggiunse e ci trovammo faccia a faccia. Mi disse che aveva capito tutto, sua moglie era spagnola. Gli risposi che, se l’avesse detto subito, avrei evitato di insultarlo». Omar aveva anche un senso dell’umorismo.
In una partita con il Real c’era un giocatore dello squadrone spagnolo che sfotteva Omar in continuazione: «Ti manca solo la piuma in testa per essere un indio». La risposta di Sivori fu immediata: una tremenda «craniata» sul naso dell’avversario.
Un giorno, a Torino, Sivori ridicolizzò a tal punto un difensore del Catania, Elio Grani, che a fine partita il poveretto, esasperato, gli urlò in faccia «Quando vieni giù a Catania ti rompo una gamba, nanetto!». La risposta ironica di Sivori: «Va bene, però sbrigati a farlo». Al ritorno al Cibali, lo stadio catanese, il 26 febbraio 1961, cinque minuti dopo l’inizio Sivori entrò con il piede a martello su Grani, fracassandogli il ginocchio.
Sivori non faceva mistero del suo caratterino, quando era di buon umore rievocava gli episodi più noti. «Nel match contro il Boca», ha raccontato, «ci picchiavamo in campo, ci dicevamo di tutto e quando in campo non riuscivamo a risolvere le situazioni, ci davamo appuntamento a fine partita. Allora le cose si risolvevano da uomini, non sugli organi di stampa». Famose anche le sue furbizie. «Padova. A pochi minuti dalla fine l’arbitro ci concede un rigore, obiettivamente dubbio. Vedendo la disperazione del portiere, Antonio Pin, mi avvicinai a lui: “Tranquillo, dai! Te lo tiro sulla sinistra”. Pin va in porta, si tuffa a sinistra, ma io tiro dall’altra parte! Iniziò a insultarmi e a inseguirmi per il campo! Lo rincontrai anni dopo al mare, d’estate, era ancora arrabbiato. Allora provai a dirgli che non ci eravamo capiti, io intendevo alla mia sinistra… Non ci cascò e continuò a odiarmi! ».
Al compagno di squadra Bruno Garzena, Sivori propose una scommessa originale: «Mi pagherai una cena ogni volta che farò passare il pallone fra le gambe del primo avversario che mi viene a tiro. Se ci riesco mi paghi una cena tu, se fallisco la pago io». La scommessa durò solo tre partite: tre cene pagate dall’incredulo Garzena.
Altra sua caratteristica: la fierezza vanitosa, l’orgoglio di sé. «Quando arrivai a Torino, al primo allenamento c’erano un sacco di tifosi e tutti i dirigenti, gli Agnelli compresi. Mi misi a palleggiare e l’Avvocato mi fece notare che palleggiavo quasi esclusivamente con il mio piede preferito, il sinistro. Allora presi la palla e feci quattro giri di campo palleggiando senza mai farla cadere. Alla fine del quarto giro mi fermai davanti a lui e gli dissi: “Secondo lei, cosa ci dovrei fare, con il piede destro?”». Come ho già accennato, Il rapporto più difficile fu con Heriberto Herrera. Si incontrarono nel ’64 quando il severo «Accacchino» fu ingaggiato per la panchina della Juventus. I caratteri dell’allenatore e del campione li portarono a continui scontri. Dino Zoff ricorda che l’incompatibilità costrinse Omar a lasciare Torino (nel ’65 passò al Napoli): «E da allora tutte le volte che giocavano contro, Sivori gli tirava pallonate contro la panchina, lo faceva apposta. E noi: “Omar, non si fa”. E lui: “Se volevo farlo davvero, lo uccidevo”. Durante la partita, Sivori si avvicinò a Herrera e gli urlò: “Al ritorno, a Torino, veniamo a giocare in sei. Per vincere contro di te, ci basta”».
Omar era nato il 2 ottobre 1935, a San Nicolàs de los Arroyos, Argentina. La famiglia era di origine italiana, la madre abruzzese, il padre ligure. Da bambino si appassiona al pallone, quasi sempre di stracci 0 di cartone. Giocava anche al buio, dopo cena: perciò dirà sempre che giocare al buio lo aveva aiutato a «sentire» l’avversario in anticipo rispetto a tutti. Debutta nel campionato argentino a 19 anni con il River piate. Ricorda che il giorno più bello della sua carriera in Argentina fu la vittoria per 4-0 contro il Rosario centrai, nel 1956: quando lui aveva 21 anni e il River vinse lo scudetto. Nel 1957 arriva in Italia, per averlo la Juve offre 160 milioni di lire. Esordio strepitoso: la Juve domina la classifica e Sivori segna 22 goal. Resta a Torino otto stagioni: tre scudetti e tre Coppe Italia, 167 gol in 253 partite. Nove volte in Nazionale, come oriundo, e otto gol. Poi al Napoli dal 1965 al 1968. Un grave infortunio al ginocchio destro nel 1967, e poi un clamoroso litigio con l’arbitro Fulvio Pieroni (sei turni di squalifica) lo spingono a concludere la carriera a 33 anni.
Al rientro in Argentina diventa commentatore in tv e fa la sponda con l’Italia. La Juventus lo ingaggia come talent scout.
La sua prodezza preferita era il tunnel: far passare la palla in mezzo alle gambe dell’avversario. Un bravo giornalista, Angelo Caroli, lo descrive così: «Il tunnel era il colpo di teatro da regalare alla platea. Lo eseguiva in tanti modi, il più strano lo effettuava correndo al tuo fianco. Il pallone ti sfilava in mezzo alle gambe senza che tu potessi intervenire». In campo e fuori, sempre senza nascondere il carattere capriccioso. Un esempio? La Juve aveva due eccellenti portieri, Carlo Mattrel e Giuseppe Vavassori. E Omar, contro ogni consuetudine, apertamente diceva di preferire Vavassori. Si dice che il motivo fosse semplice: erano vicini di casa, le mogli si frequentavano.
Forse su di lui la definizione più suggestiva resta quella di Gianni Agnelli: «Sivori è più di un fuoriclasse. Per chi ama il calcio è un vizio. Sai che alla lunga non ti farà bene, ma non puoi farne a meno». Caustico il popolarissimo giornalista Camin (Vladimiro Caminiti): «Lento, individualista, tratta la squadra come una sua proprietà». Più che oggettivo invece Boniperti, che pure non lo amava più di tanto: «Grande, grandissimo. Strafottente. Provocatore. Menava, le dava, le prendeva». Divertente il ricordo di Giuseppe Furino: «Quand’ero nelle giovanili della Juve, a Sivori ho fatto un tunnel e ci è rimasto male: “Ragazzino, come ti permetti?”. “Non l’ho fatto apposta”, gli ho detto. Invece sì, era da mezzora che provava lui a farmi un tunnel». Infine, il violinista Salvatore Accardo: «Mi diverto ad abbinare i calciatori ai musicisti. Sivori, l’estro di Niccolò Paganini». Memorabile anche ciò che diceva lui del suo mondo. «Io e Boniperti avevamo una concezione totalmente diversa del calcio e non riuscivamo ad andare d’accordo. Tutto lì, avevamo caratteri forti e inconciliabili. In campo, però, si giocava senza pensare alle differenze». Su Alfredo Di Stefano: «Mi chiedono spesso chi è stato più forte, Pelé 0 Diego Armando Maradona? Tra i due non so, ma il più forte di tutti è stato Di Stefano». Vinse il Pallone d’oro nel 1961. Era apprensivo: gli capitava di vomitare prima di una partita importante, faticava a prendere sonno. Si sposò con Maria Elena Casas. Tre figli: Néstor, Myriam e Humberto. Un dolore atroce: la morte di Humberto, a 15 anni, per un tumore. E anche Omar si spense per un tumore il 27 febbraio 2005, nella sua casa di San Nicolàs. All’ingresso aveva fatto scolpire lo stemma della Juventus. Anche a Napoli era stato molto amato: i tifosi avevano corretto il verso «vide ‘o mare quant’è bello» della canzone Torna a Surriento in «vide Omar quant’è bello».