Non può essere disposta la confisca sugli immobili dell’imprenditore che ha patteggiato la frode fiscale e altri illeciti fallimentari se prima non si motiva sull’impossibilità di sequestrare direttamente il patrimonio aziendale o comunque il profitto del reato (pari all’ammontare dell’imposta evasa). È quanto affermato dalla Corte di cassazione che, con la sentenza n. 10525 dell’8 marzo 2018, ha accolto il ricorso di un imprenditore di Frosinone.
In materia di reati tributari, ecco i motivi che hanno condotto i Supremi giudici ad accogliere il ricorso del contribuente, la confisca dei beni che costituiscono il profitto o il prezzo di uno dei delitti previsti dal dlgs 10 marzo 2000, n. 74 deve essere sempre disposta anche nel caso di sentenza di applicazione concordata della pena pur laddove essa non abbia formato oggetto dell’accordo tra le parti, attesa la sua natura di vera e propria sanzione, non commisurata alla gravità della condotta né alla colpevolezza dell’autore, ma diretta a privare quest’ultimo del beneficio economico tratto dall’illecito, anche di fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto principale dell’attività criminosa. È ovvio però che l’obbligatorietà della confisca non esime il giudice dall’onere di motivare sui parametri rilevanti, quali la determinazione dell’ammontare del profitto, la verifica dell’impossibilità di disporre la confisca diretta, la documentata sussistenza di eventuali esborsi risarcitori che vanno decurtati dall’importo suscettibile di confisca.
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