Incarico non al primo partito, ma chi ha più chance
Il piano d’azione è tutto scritto, quasi nei dettagli. Qualunque risultato emergerà dalle urne, sul Colle sanno già come regolarsi: ecco perché, a 12 giorni dal voto, lassù si respira aria tranquilla. Ma non c’è nulla di «top secret» nelle intenzioni presidenziali. Per scoprirle in anticipo è sufficiente un buon manuale di diritto costituzionale, a scelta tra i tanti che circolavano nella Prima Repubblica. Per un quarto di secolo sono rimasti a impolverarsi negli scaffali perché non servivano più, si disse, dopo l’avvento del sistema maggioritario. Ma adesso, col Rosatellum per due terzi proporzionale, si ritorna alle origini, quando la nascita dei governi veniva scandita da regole che agli attori attuali forse sfuggono. Sergio Mattarella ne possiede il know-how, un po’ perché appartiene a un’altra generazione e poi, se non bastasse l’anagrafe, in quanto prof di diritto parlamentare. Insomma, dal 5 marzo si muoverà lungo i binari della prassi codificata nell’arco di 50 anni, in modo trasparente e soprattutto prevedibile.
Se vince la destra
Esempio numero uno: il centrodestra conquisterà la maggioranza, tanto alla Camera quanto al Senato? L’incarico di governo non potrà che andare a un personaggio di quel mondo. Saranno i partiti a suggerirne il nome. Qualora indicassero Antonio Tajani, presidente del Parlamento Ue, Mattarella potrebbe forse far notare che all’Italia non conviene perdere quella poltrona. Tuttavia certo non si metterebbe di traverso. Sbaglia invece Berlusconi a ripetere che, come ministro dell’Interno, vorrebbe Matteo Salvini. Senza accorgersene, il Cav invade le prerogative quirinalizie, come vengono definite all’articolo 92 della Costituzione: «Il presidente della Repubblica nomina il presidente del Consiglio e, su proposta di questo, i ministri». In altre parole, Mattarella dovrà dare l’okay. Ma dopo le uscite di Salvini sui migranti, che definire sopra le righe è poco, qualche frequentatore del Quirinale si domanda se la poltrona del Viminale sarebbe la più adatta per un leader così divisivo e, dunque, il Capo dello Stato ci metterebbe la firma. Di sicuro, sui nomi dirà la sua.
Nell’ipotesi di pareggio
Caso numero due: nessuno vince le elezioni. Anche qui, soccorrono le regole antiche. Dove conta poco se arrivi primo, importa semmai se riesci a mettere insieme una maggioranza. L’incarico viene dato a chi ha chance di farcela. Fino a un paio di mesi fa, questa sfumatura non era ben colta dai grillini, i quali ripetevano: «Se saremo il partito più votato, Mattarella dovrà darci l’incarico». Poi d’improvviso la svolta: Luigi Di Maio ha preso atto che non funziona così, cambiando registro. A fare chiarezza sono stati, pare, ambasciatori parecchio schivi, che non lo ammetterebbero mai. Di sicuro, i canali di comunicazione tra Quirinale e Cinquestelle sono numerosi e attivi. Il presidente non vuole tagliare fuori nessuno, chi ha buona volontà deve poter dare una mano. È un po’ il senso della «pagina bianca» di cui aveva parlato la sera di San Silvestro.
Nel vicolo cieco
E se non si trovasse una via d’uscita? Prima di sciogliere le Camere una seconda volta, Mattarella metterebbe in campo tutta la pazienza necessaria. Lascerebbe svelenire il clima dalle tossine della campagna elettorale o, se l’immagine non convince, darebbe tempo di posarsi alla polvere sollevata in battaglia. Le larghe intese, qualora si realizzassero, sarebbero frutto di lunghe attese. Ai tempi di Aldo Moro si parlava, non a caso, di «decantazione». Il Capo dello Stato le proverebbe tutte, tentativi su tentativi. E perfino i fallimenti sarebbero di aiuto: farebbero capire che non ci sono alternative a un compromesso serio. Poco per volta i protagonisti dovrebbero prenderne atto. Ecco spiegato il clima, nonostante tutto, speranzoso; ed ecco come mai Gentiloni, per quanto Mattarella lo apprezzi, difficilmente resterà a Palazzo Chigi. Senza il sostegno del Parlamento non potrebbe tirare avanti, e chi lo va dicendo rilegga il Mortati. Ma se i partiti trovassero un accordo, figurarsi se centrodestra e M5S accetterebbero un premier targato Pd. Chiederebbero di iniziare una storia nuova.
La Stampa