La riforma fiscale avviata dal presidente Donald Trump negli Stati Uniti «rischia di intensificare la competizione fiscale globale, comportando una possibile erosione delle basi imponibili nei Paesi dell’Unione europea». Lo segnala la Bce in un focus su «L’impatto economico della riforma fiscale statunitense» pubblicato oggi sul sito istituzionale. Se nel complesso la riforma «fornirà un significativo stimolo fiscale all’economia statunitense nel prossimo decennio», segnala la Banca centrale europea nel documento, «spingendo la domanda interna e facendo salire il Pil reale nel breve termine, le conseguenze che tutto ciò avrà sull’area euro rimangono altamente incerte e complesse».
La concorrenza fiscale fra Stati, purché non spinta fino alla creazione di «paradisi», è stata lodata per decenni dagli apologeti del libero mercato come via da seguire, anche in Europa dove si trovano il Lussemburgo, le isole Jersey e Guernsey, l’Irlanda e altri Stati o staterelli che offrono fiscalità di vantaggio ai capitali stranieri. Durante gli stessi decenni si è detto da parte dei liberisti (ma anche degli europeisti senza etichetta) che questa concorrenza fiscale è cosa buona e giusta e che quando si scatena è tanto peggio chi non è capace di adeguarvisi. In tutti questi decenni i costi dell’elusione fiscale per gli Stati europei e per i singoli cittadini sono stati pesantissimi, senza bisogno di Trump. La situazione è stata esaltata per decenni dagli economisti iper-liberisti e (di volta in volta) benedetta oppure ignorata dai trattati europei e dalle istituzioni di Bruxelles e di Francoforte. Adesso che gli Usa fanno passi nella stessa direzione l’Europa è a corto di argomenti per polemizzare.
Luigi Grassia, La Stampa