Cosa ha fatto nei suoi primi 12 mesi di mandato uno dei presidenti più controversi della storia americana, a parte scrivere tweet
È ironico, forse, che il primo agitato anno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti si sia concluso con il cosiddetto “shutdown”, il blocco a cui si arriva quando il Congresso non riesce a mettersi d’accordo per finanziare le spese del governo federale. È altrettanto interessante che questo “shutdown” si sia concluso con una vittoria politica dei Repubblicani: sono stati i Democratici a cedere per primi, accettando in cambio dei propri voti la promessa – già tradita una volta – di una futura discussione sull’immigrazione. Questa successione di negoziati, crisi, drammi, ricomposizione dei drammi con vittoria politica dei Repubblicani era già successa altre volte quest’anno, ed è esemplare di molto di quello che è successo. Anniversari e scadenze temporali ci portano inevitabilmente a fare un punto e a capo, e trarre delle conclusioni: e visto che lo facciamo individualmente – le liste dei buoni propositi, per esempio – lo facciamo anche con la classe dirigente, con gli amministratori delegati, con i sindaci, con primi ministri e presidenti. E quindi anche con Donald Trump, che in questi giorni di un anno fa si insediava alla presidenza degli Stati Uniti, e nessuno sapeva bene cosa aspettarsi. Oppure sì? Siamo abituati a una narrazione politica che considera criptici o illeggibili i politici moderati, cauti, prudenti, dalla lingua felpata, che cercano di mettere d’accordo tutti; certo non uno come Trump, che praticamente pensa ad alta voce. Eppure a un anno dal suo insediamento in moltissimi – anche tra gli osservatori molto esperti – vivono un sentimento ambivalente: non si sorprendono più di niente e si sorprendono ancora di tutto. E le sue intenzioni e motivazioni vengono continuamente ipotizzate e discusse, a prescindere da quello che Trump stesso dica o faccia. Una persona di buon senso a questo punto potrebbe dire: alla luce di tutto questo, superiamo le chiacchiere e passiamo ai dati. Ne sono successe di cose in un anno: mettiamole in fila. Non è detto che sia il modo per ottenere una risposta finale – non c’è una risposta finale, a questo punto lo avrete capito – ma può essere un buon modo quantomeno per tracciare i confini della conversazione: per parlarne sulla base di alcuni fatti dati per certi e condivisi. Economia, tasse e lavoro. L’economia statunitense è in buona salute ormai da diversi anni: il prodotto interno lordo (Pil) è ricominciato a crescere tra il 2009 e il 2010 e da allora non si è più fermato. Il risultato positivo del 2017 – manca ancora il dato finale, che dovrebbe aggirarsi intorno al +2,5 per cento – è in linea con quello degli anni precedenti. Lo stesso vale per l’occupazione: durante il 2017 sono stati creati 1,8 milioni di posti di lavoro e il tasso di disoccupazione è sceso fino al 4,1 per cento, il più basso dal dicembre del 2000. Gli Stati Uniti vengono da 85 mesi consecutivi di crescita dei posti di lavoro, la striscia positiva più lunga da quando esistono questi dati. Gli stipendi invece continuano a crescere pochissimo, nonostante la quasi piena occupazione, probabilmente perché i nuovi posti di lavoro sono soprattutto a basso reddito e quindi i datori di lavoro non hanno bisogno di offrire più soldi per trovare nuovi impiegati. È difficile dire quanto di tutto questo sia merito dell’amministrazione Trump. Gli effetti di quasi qualsiasi provvedimento legislativo sull’economia tendono a dispiegarsi nel corso di anni e insieme a tantissime altre variabili, non immediatamente percettibili, soprattutto in un paese grande e con un’economia eterogenea come gli Stati Uniti. Inoltre negli Stati Uniti il governo federale non è l’unico soggetto in grado di cambiare le cose: tutti e cinquanta gli stati hanno il potere di tagliare e aumentare le tasse, per esempio, così come possono decidere di sostenere una certa categoria di lavoratori o di imprese. Insomma, è complicato. Ci sono altre due ragioni che fanno escludere che questi dati, buoni o cattivi che siano, si debbano all’amministrazione Trump: il primo è che sono perfettamente coerenti con quanto avvenuto negli scorsi anni; il secondo è che l’unico grande e incisivo provvedimento economico approvato dal Congresso e dalla Casa Bianca nel corso del 2017 è stato la riforma fiscale – che taglierà le tasse a moltissimi, ma soprattutto ai più ricchi – diventata legge soltanto a dicembre. Allora Trump non può prendersi il merito proprio di niente? Di qualcosa può. Gli indici di borsa sono cresciuti come negli anni precedenti, ma nel 2017 hanno trovato un nuovo slancio fino a raggiungere livelli record, confermando che gli investitori di Wall Street sono al momento tra i più contenti del lavoro dell’amministrazione, fosse anche solo perché non minaccia di introdurre nuove regolamentazioni ma anzi promette di rimuovere quelle esistenti. L’approvazione della riforma fiscale – che garantirà grandi risparmi ai super ricchi e alle grandi aziende – ha fatto sì che alcune società, come Apple, riportassero negli Stati Uniti soldi che prima tenevano all’estero, o dessero dei bonus una tantum ai propri dipendenti. Commercio internazionale. Una delle principali promesse fatte da Trump durante la campagna elettorale era un radicale cambio di approccio nel commercio internazionale: stracciare gli accordi esistenti o in via di approvazione – il NAFTA con Canada e Messico, il TPP con i paesi del Pacifico, il TTIP con l’Europa, eccetera – e ricominciare da zero, a condizioni migliori per i lavoratori statunitensi. Trump prometteva poi di punire la Cina con dazi e sanzioni, allo scopo di penalizzare le sue esportazioni verso gli Stati Uniti; e ribadiva che il Messico avrebbe pagato la costruzione del muro al confine per via del suo esagerato surplus finanziario – cioè la differenza tra quanto esporta e quanto importa da un paese – nei confronti degli Stati Uniti. Il TTIP e il TPP erano già praticamente naufragati, sconfessati anche da Hillary Clinton e dai Democratici, e Trump si è limitato ad assecondarne la fine (peraltro le trattative tra i paesi del TPP stanno andando avanti, ma con standard molto inferiori per i lavoratori rispetto a quanto avevano ottenuto gli Stati Uniti e con la concreta possibilità che la Cina prenda il loro posto). Il NAFTA, che esiste dal 1994, è ancora lì: Trump ha minacciato più volte di stracciarlo ma non lo ha fatto. Lo stesso vale per la Cina: le promesse su dazi, sanzioni e guerre commerciali non hanno avuto nessuna conseguenza, nessun conflitto è stato sollevato davanti all’Organizzazione Mondiale del Commercio, i timidi tentativi di introdurre qualche dazio soltanto sulle importazioni di acciaio sono morti quando la Casa Bianca si è resa conto di quanti settori industriali statunitensi oggi utilizzino l’acciaio cinese. Come è cambiata la posizione di Trump sulla Cina. Soltanto ieri – ma siamo ormai al secondo anno – sono state approvate le prime sanzioni sulle importazioni di pannelli solari e lavatrici dall’estero, soprattutto da Cina e Corea del Sud. Sanità. È il tema su cui aveva più insistito tutto il Partito Repubblicano negli ultimi sette anni, e quello su cui Donald Trump era esattamente sulla linea del suo partito, con la proposta/promessa di abolire e sostituire la riforma sanitaria approvata su impulso dell’amministrazione Obama nel 2010. Eppure non se ne è fatto niente: nonostante i Repubblicani controllino entrambi i rami del Congresso, tre diversi tentativi di abolire la riforma di Obama sono falliti per via delle divisioni all’interno del Partito Repubblicano e dell’estrema impopolarità che comporterebbe abolire una legge che, per quanto imperfetta, ha dato copertura sanitaria a 20 milioni di persone che prima non ce l’avevano, tra cui molti malati cronici. Anche in questo caso una prima svolta è arrivata con l’approvazione della riforma fiscale alla fine dell’anno: la legge contiene infatti una norma che abolisce il cosiddetto “individual mandate”, cioè il controverso obbligo per tutti gli americani di contrarre una polizza sanitaria. Questo obbligo allargava il numero degli assicurati portando dentro il sistema anche persone giovani e sane, che in condizioni normali non si sarebbero assicurate, per dare così la possibilità economica alle compagnie assicurative di assicurare anche i malati cronici, le cui cure sono molto costose. La fine dell’”individual mandate”, insieme ad altre più piccole decisioni burocratiche che hanno boicottato il funzionamento di Obamacare, rischia di portare all’implosione del sistema sanitario statunitense nel corso del 2018. È un obiettivo dichiarato di Trump, secondo cui solo così si costringeranno i Democratici a sedersi a un tavolo e trattare. Immigrazione. La più grande e famosa promessa di Donald Trump esiste ancora solo sulla carta: la costruzione del muro al confine col Messico non è stata ancora nemmeno finanziata; otto prototipi sono stati costruiti e presentati nella zona di confine vicino San Diego, in California. Il numero degli immigrati irregolari arrestati o espulsi è però aumentato del 30 per cento rispetto al 2016, grazie a politiche più rigide introdotte dal governo federale e dai singoli stati e alle decisioni dell’amministrazione Trump contro le cosiddette “città santuario”, cioè le città che garantiscono protezione agli immigrati irregolari che non violano la legge.
Il Post