Dat, è legge. Necessaria, ma anche amarissima. La imponevano i profondi mutamenti socioculturali. I progressi sconvolgenti delle tecnologie terapeutiche rallentano anche di anni quell’iter naturale del decesso, ormai privo di speranza di guarigione, che un tempo era terribilmente doloroso, ma anche breve. Anche la crisi della famiglia e della casa, dove nel passato spesso avveniva il decesso, rendono impossibile una assistenza casalinga dei malati terminali.
Non è un caso che quasi tutte le nazioni occidentali abbiano già legalizzato il biotestamento, che, nonostante possibili rischi, lascia l’ultima parola al soggetto malato. Perché nelle culture cristiane solo la persona è autorizzata a decidere su se stessa, sia pure dentro le norme del diritto naturale. Come diceva Albert Camus, «vi è un solo problema filosofico serio: giudicare se la vita valga la pena di essere vissuta» (Il mito di Sisifo).
Ma la Dat non legalizza l’eutanasia? Non quella diretta, che la Chiesa rifiuta pur ammettendo la sospensione dell’accanimento terapeutico. Che fu richiesto nel 2005 da papa Wojtyla: «Lasciatemi andare dal Signore»; e nel 2012 dal card. Martini, che rifiutò la nutrizione artificiale. All’eutanasia anche attiva è favorevole il 74% degli italiani. Una qualche legge in merito ci voleva. Ora c’è, speriamo che se ne faccia un buon uso.
Ma quella scenografia da match calcistico tra sostenitori e contrari al Dat non ci voleva proprio. Si tratta di una legge funerea e tragica, come sanno bene anche quei suoi sostenitori che erano in tribuna al Senato. Persone che hanno enormemente sofferto e che meritano comprensione e rispetto. Ma non lo merita il loro applauso (molti di loro hanno battuto le mani anche all’aborto come «scelta di civiltà»). Purtroppo, come ha scritto con profondità lo storico Philippe Ariès, la sensibilità nei confronti della morte è cambiata: prima era «addomesticata» (alto medioevo), poi «di sé» (basso medioevo), ancora «dell’altro» (romanticismo), oggi è «proibita», rischia di ridursi ad un incidente tecnologico: «La morte, questa compagna familiare, è scomparsa dalla lingua: il suo nome è diventato tabù» (Storia della morte in Occidente). Non più esistenziale, si è fatta tecnologica, prima si moriva «quando Dio vorrà», oggi «quando si staccano i tubini».
Il testamento biologico, soprattutto perché evita quell’atto di prometeismo medico che è l’accanimento terapeutico, è meglio del niente, ma c’è poco da applaudire: «l’ultimo atto è sanguinoso, anche se la commedia è andata bene: alla fine ci buttano della terra sulla testa e così per sempre» (le dernier acte est sanglante, quelque belle que soit la comédie en tout le reste: on jette enfin de la terre sur la tête, et en voilà pour jamais; Pascal, 210).
Gianfranco Morra, ItaliaOggi