Gli atti della corrispondenza fra le autorità inglesi, svedesi e americane rimarranno inaccessibili ai media. Per le Nazioni Unite il fondatore di WikiLeaks è detenuto ‘arbitrariamente’ dal 2010
La stampa non ha il diritto di accedere a tutti i documenti del caso Julian Assange, perché l’esigenza di proteggere la confidenzialità dei procedimenti di estradizione prevale sull’interesse della pubblica opinione di conoscere la verità. Migliaia di pagine di documenti sull’affare Assange, dunque, rimarranno segrete, senza che i media possano conoscerne i contenuti e ottenerne copia. Ha deciso così il giudice Andrew Bartlett chiamato a pronunciarsi su un ricorso davanti al First-tier Tribunal di Londra promosso da Repubblica.
Nel novembre scorso, infatti, il nostro giornale si è presentato in Tribunale nella capitale inglese per difendere il diritto della stampa di accedere a tutti i documenti di un caso a dir poco anomalo. Non ha importanza come la si pensi sul fondatore di WikiLeaks: piaccia o meno il personaggio, si condivida o meno il lavoro che fa, Julian Assange è l’unico editore del mondo occidentale detenuto arbitrariamente nel cuore dell’Europa fin dal dicembre 2010, come hanno stabilito le Nazioni Unite. Eppure in questi sette lunghi anni non un solo media ha cercato di accedere all’intera documentazione per acquisire informazioni fattuali sul suo caso.
E’ per questo che Repubblica ha deciso di ricorrere in Tribunale contro il rifiuto delle autorità inglesi di rilasciare al nostro giornale copia di tutta la documentazione. Il dibattimento si è tenuto nel novembre scorso a Londra e ha visto le autorità inglesi testimoniare a porte chiuse davanti al giudice. Ora, a neppure un mese di distanza, arriva la sentenza: un rigetto totale delle nostre richieste. A questo punto dobbiamo valutare se esistono le basi legali per ricorrere in appello.
La storia infinita
Due agenzie hanno svolto un ruolo chiave nel caso Assange: la Swedish Prosecution Authority (Spa) di Stoccolma, che ha condotto un’inchiesta per stupro rimasta paralizzata per sette anni alla fase preliminare e archiviata solo nel maggio scorso, e il Crown Prosecution Service (Cps) di Londra, che ha supportato i procuratori svedesi, perché, prima che l’indagine fosse archiviata, il fondatore di WikiLeaks era indagato a Stoccolma, ma si trovava a Londra fin dal 2010.
E’ contro il Crown Prosecution Service che Repubblica è ricorsa in Tribunale per ottenere, tra le altre cose, tutta la corrispondenza tra le autorità svedesi e quelle inglesi e per avere copia di ogni eventuale comunicazione con le autorità americane, perché da sempre la preoccupazione di Julian Assange è quella di finire estradato negli Stati Uniti e condannato insieme allo staff di WikiLeaks per la pubblicazione dei documenti segreti del governo americano. E’ questa preoccupazione che lo ha spinto prima a opporsi con ogni mezzo legale all’estradizione a Stoccolma, richiesta dai procuratori svedesi, e poi quando questa richiesta è venuta meno con l’archiviazione dell’indagine, a rifiutarsi di mettere piede fuori dall’ambasciata, dove si trova ancora oggi.
Una guerra di trincea
Per due anni il nostro giornale ha chiesto i documenti al Crown Prosecution Service, senza alcun esito. Solo quando siamo ricorsi a un’azione legale, le autorità inglesi si sono decise a rilasciarci 792 pagine così pesantemente censurate da essere praticamente inutili. Non solo: a ridosso dell’udienza in Tribunale a Londra, le autorità inglesi ci hanno comunicato che tutte le email di Paul Close – l’avvocato del Crown Prosecution Service che ha gestito il caso Assange fin dall’inizio – erano state cancellate, senza che peraltro ci fosse fornita una spiegazione convincente del perché documenti riguardanti un caso tanto controverso e ancora aperto fossero stati distrutti per sempre.
Questa settimana, è arrivata una nuova doccia fredda: il Tribunale presieduto dal giudice Andrew Bartlett ha rigettato il nostro appello, argomentando che non abbiamo diritto di accedere a tutta la corrispondenza tra le autorità svedesi e quelle inglesi, perché questo tipo di comunicazioni riguarda un procedimento di estradizione – seppure ormai decaduto con l’archiviazione dell’indagine – e l’interesse delle autorità inglesi a proteggere la confidenzialità del procedimento di estradizione di sospetti criminali supera l’interesse dell’opinione pubblica a conoscere la verità.
Il Tribunale ha inoltre stabilito che non abbiamo neppure il diritto di sapere se esista una corrispondenza tra le autorità inglesi e quelle americane sul caso Assange, perché se fosse confermato che tale scambio epistolare esiste, esso riguarderebbe, in tutta probabilità, «una domanda su una possibile richiesta di estradizione, o anche una vera e propria richiesta di estradizione o una risposta a tale richiesta» e pertanto rivelarne l’esistenza equivarrebbe a fornire una soffiata a Julian Assange.
Estradare un editore o criminale: tutte le estradizioni sono uguali?
Per quanto avversa, la sentenza contiene passaggi molto importanti: il verdetto, infatti, non contesta a WikiLeaks lo status di organizzazione giornalistica «che pubblica e commenta su materiali ufficiali censurati o la cui diffusione è comunque riservata, materiali che riguardano guerre, sorveglianza e corruzione e che vengono inviati a WikiLeaks in una varietà di circostanze». Pare un’affermazione poco rilevante, ma in realtà non lo è se si considerano gli attacchi virulenti che WikiLeaks ha subito nell’ultimo anno da parte di personaggi come Mike Pompeo, il capo della Cia nominato da Donald Trump, che ha definito l’organizzazione di Julian Assange “un servizio di intelligence ostile”.
Nel ricorso contro le autorità inglesi, il nostro giornale è rappresentato da due brillanti avvocatesse londinesi, Estelle Dehon e Jennifer Robinson rispettivamente degli studi legali Cornerstone Barristers e Doughty Street Chambers. «E’ importante che il Tribunale abbia riconosciuto che Mr. Assange sia “l’unico editore del mondo occidentale che si trova in una situazione definita dalle Nazioni Unite come detenzione arbitraria”, commenta Jennifer Robinson, aggiungendo: «Il Tribunale ha anche riconosciuto come il caso si sia protratto per un tempo molto lungo e con elevati costi per la collettività, due situazioni queste che sono fonte di preoccupazione legittima per l’opinione pubblica».
Eppure, nonostante queste importanti conclusioni, il Tribunale ha trattato il rischio di estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti senza alcun riguardo per la sua condizione di editore: per il Tribunale, il fondatore di Wikileaks non ha diritto di sapere se esiste una richiesta di estradizione negli Usa per la pubblicazione dei documenti segreti esattamente come un narcotrafficante o un mafioso non ha diritto a ricevere soffiate su una richiesta di estradizione che lo riguardi. Una conclusione che nelle nostre società democratiche dovrebbe far discutere: è legittimo equiparare l’estradizione di un editore perseguito per le sue pubblicazioni all’estradizione di un criminale qualsiasi? Le estradizioni sono tutte uguali?
«Questo ricorso», commenta Estelle Dehon a Repubblica, «ha certamente permesso di fare dei progressi perché il Tribunale ha accettato che questo caso solleva questioni che riguardano i diritti umani fondamentali e la libertà di stampa. Il Tribunale ha anche accettato che esiste un significativo interesse dell’opinione pubblica a conoscere questi documenti e in particolare nel fare luce su come il Crown Prosecution Service abbia gestito il procedimento di estradizione e le sue relazioni con i magistrati stranieri. Delude, però, il fatto che il Tribunale giudichi l’interesse dell’opinione pubblica a conoscere la verità meno rilevante di altri interessi. Per questo stiamo valutando le argomentazioni del Tribunale in vista di un possibile ricorso in appello».
Stefania Maurizi, Repubblica.it