È stato l’anno più complicato, eppure la crescita continua. Ogni giorno dieci milioni di corse. Viaggio nel cambiamento in atto, dal nuovo amministratore delegato ai piani per i driver, dal quartier generale di San Francisco
Per raccontare l’evoluzione di Uber si possono guardare i numeri e scoprire che ogni giorno dieci milioni di corse vengono effettuate in 84 paesi del mondo grazie all’app e i suoi due milioni di autisti. Si può ascoltare, sulla strada dall’aeroporto, la storia di Muhammad, che nella settimana fa il magazziniere per un e-commerce di giocattoli a Sacramento e nel weekend il driver a San Francisco. O si può salire all’undicesimo piano del palazzo di Market Street che ospita il quartier generale e scoprire il ripensamento della strategia aziendale. Ma presi singolarmente, tutti questi sarebbero frammenti insufficienti a rivelare quanto la rincorsa spericolata della società non quotata in Borsa con la più alta valorizzazione al mondo, quasi 70 miliardi di dollari, sia fondamentale per capire l’anno che sta per finire.
Il 2017 sarà ricordato come l’anno di svolta per la percezione dei giganti tecnologici, diventati troppo grandi e potenti per essere considerate simpatiche startup, l’anno delle accuse sulle fake news in America e sul fisco in Europa, l’anno delle denunce per le molestie sessuali e dei diritti dei lavoratori che tornano in agenda. Non c’è un singolo aspetto di tutto ciò che non si intersechi con la storia di Uber, che negli ultimi dodici mesi ha navigato attraverso scandali per molestie, battaglie legali, colpi di mano degli investitori, senza dimenticare le crisi nei vari mercati in cui opera. Alcuni dei manager più esperti si sono dimessi o sono stati licenziati e a giugno il co-fondatore e amministratore delegato Travis Kalanick, l’anima di Uber fino ad allora, è stato costretto a dimettersi.
Forse si può dire che per la società nata solo otto anni fa, nel marzo 2009, sia stato l’anno dell’adolescenza. Secondo la leggenda, l’idea di Uber è nata quando Kalanick si ritrovò a piedi, senza un taxi, al freddo dell’inverno di Parigi dopo aver visitato la Tour Eiffel. Da quell’idea, per cambiare il mondo del trasporto, come dice di voler fare, ci sono voluti tenacia, molti soldi e coraggio per espandersi negli Stati Uniti e poi nel mondo. Nei primi anni Uber ha corso seguendo il motto della Silicon Valley di allora: «Move fast and break things» («Muoviti veloce, rompi le cose»). La Uber in cui Maya Choksi entra nel 2012 ha quaranta dipendenti a San Francisco e cento nel mondo (oggi sono duemila a San Francisco, dodicimila nel mondo). Choksi si occupa dell’esperienza di viaggio attraverso l’app: «Al tempo – ricostruisce oggi, in una sala riunioni del quartier generale di San Francisco – non avevamo un team che facesse ricerca. Uscivamo dall’ufficio e cercavamo di persona i driver per far testare al volo le nuove versioni dell’app».
In fondo per noi utenti Uber è solo un’app, il famoso bottone da schiacciare che magicamente fa arrivare un auto dove siamo e ci porta a destinazione. Quindi se a far sì che il bottone funzioni ci siano dieci, cento o mille ingegneri, poco importa. Ma la grande promessa di Uber investe il mondo reale, i trasporti, lo spazio delle nostre città. In molte delle piazze dove ha debuttato, la società ha incontrato leggi e sentenze pronte a bloccare il servizio che permette di fare l’autista senza una licenza (come in Italia) e ovviamente tassisti sorpresi da un’imprevista concorrenza.
La forza di tutte le piattaforme è disegnare un’unica soluzione e distribuirla dalla Cina all’Africa, così si può sfruttare le economie di scala. Ma affrontare un’ordinanza del sindaco non è scalabile. Così Uber è andata incontro a proteste e problemi. Allo stesso tempo, ogni anno, ogni mese e ogni settimana c’era un obiettivo da raggiungere – la crescita! – per tenere viva la promessa agli investitori che accorrevano uno dopo l’altro. «Ogni anno raddoppiavamo, l’azienda cresceva così tanto, ma non stavamo investendo abbastanza sulle persone – dice Choksi -. Quando cresci così può capitare che persone senza esperienza diventino manager, ma non tutti lo sanno fare. Era tutto molto veloce e non abbastanza strutturato, onestamente», ammette oggi.
Qualcosa è cambiato, da allora. Il numero di dipendenti significa maggior tempo da dedicare ai problemi. Così mentre Uber investe sull’auto senza guidatore (ha appena staccato un ordine per ventiquattromila veicoli Volvo driverless) e sull’auto volante (i test saranno fatti a Los Angeles entro il 2020), nel 2017 si è concentrata sul primo motore della sua crescita: gli autisti. È una perfetta spiegazione del meccanismo di domanda e offerta: dove ci sono più autisti cresce l’offerta e di conseguenza più utenti sanno di poter contare sull’app. Il lavoro di Tom Fallows, un manager che arriva da Google dove aveva lanciato un servizio di corriere espresso, è migliorare l’esperienza dei pagamenti per i driver: ora dopo il viaggio si può dare la mancia all’autista, l’importo della corsa e la quota che va a Uber è descritta in modo trasparente e il denaro è disponibile sul conto dell’autista in pochi secondi. Ancora, le corse in luoghi remoti della città vengono garantite in caso di cancellazione, un incentivo che ha anche l’effetto di ampliare le aree coperte. «È un ciclo naturale: prima c’era l’espansione, ora è il momento di rafforzarci», dice Fallows.
Molly Stevens è invece a capo di una squadra di quaranta ricercatori. Lavora sull’esperienza quotidiana degli autisti: per capire meglio il loro punto di vista, ma soprattutto perché le piace – giura – è lei stessa una driver. «Quando sono entrata in Uber ho sentito la passione per l’azienda, le storie di pensionati o mamme single che hanno trovato un lavoro. Ora viviamo una fase importante – aggiunge -: dall’essere molto efficienti ma non attenti al lato umano, stiamo cambiando e imparando molto».
La vita nuova di Uber passa attraverso un piano di cui tutti parlano nell’azienda, «i 180 giorni», sei mesi per migliorare Uber punto di vista degli autisti. Il nuovo ad, Dara Khosrowshahi, ha introdotto nuove parole d’ordine nella cultura aziendale, con l’idea dell’umiltà e del lavoro come ossessione, e ha criticato pubblicamente il predecessore per alcune scelte, quasi a voler dimostrare la nuova integrità dell’azienda. Ha offerto un volto nuovo, dialogante, ai sindaci delle città dove Uber affronta dei problemi, come a Londra, dove i suoi autisti rischiano di perdere la licenza concessa dall’autorità locale dei trasporti. La società ha però fatto ricorso e la grande popolarità dell’app ha provocato una mobilitazione: oltre 850mila persone hanno firmato una petizione per «salvare Uber», facendo pressione sul sindaco Sadiq Khan. Sempre nel Regno Unito, Uber ha subito una sconfitta pesante in un tribunale del lavoro, che la costringerebbe a riconoscere come dipendenti i propri autisti che oggi operano di fatto come free lance, senza turni imposti. Anche in questo caso la società ha fatto ricorso. Visti da lontano, sono tutti tentativi di disegnare un nuovo equilibrio, necessario, tra diritti del lavoro e contemporaneità della cosiddetta sharing economy.
Nonostante gli incidenti di percorso, però, la scommessa formidabile di Uber ha tenuto il passo degli investitori. In Cina, dove affrontava la grande concorrenza interna, Uber ha fatto un patto con i concorrenti di Didi. Un nuovo investimento miliardario sta arrivando dai giapponesi di SoftBank, anche se dopo questo complicato 2017, il fondo otterrà uno sconto sulla valutazione della società. In alcuni continenti, mercati più maturi, la società è vicina all’equilibrio economico, anche se i conti globali, con ricavi lordi che per l’intero 2017 supereranno i 30 miliardi di dollari e ricavi netti vicini ai 10 miliardi, segneranno probabilmente una perdita.
Il capo dei famosi «180 giorni» si chiama Aaron Schildkrout. È un ragazzone alto, felpa grigia, brizzolato, occhiali spessi grigi. «Abbiamo cambiato metodo – dice -. L’azienda è cresciuta così velocemente che aveva decentralizzato le decisioni: è stato importante ma non c’era una strategia unica». Nel 2018 il ripensamento riguarderà non più i driver ma i rider, ovvero le opzioni da offrire all’utente. «Siamo la piattaforma che offre lavoro più grande al mondo. E abbiamo la missione di offrire un trasporto universale», conclude Schildkrout. La scommessa è viva. Il paradosso esplicitato dalla (breve) storia di Uber è che senza le forzature di ieri, oggi la società non sarebbe più sul mercato. Se Uber sta facendo ordine, prima o poi bisognerà farci i conti.
Beniamino Pagliaro, La Stampa