Il Senato approva con 51 voti contro 49 la riforma che porta al 20% le imposte delle imprese. Il taglio voluto dal presidente farà aumentare il deficit federale di 516 miliardi di dollari
La riforma fiscale che il Senato ha approvato ieri mattina, prima vittoria legislativa per Trump, è il vero punto su cui si gioca la sua presidenza, al netto dell’inchiesta sul «Russiagate». Vale molto più del muro lungo il confine col Messico, il bando degli immigrati musulmani, i giudici conservatori della Corte Suprema, la vittoria sull’Isis, o le rivendicazioni identitarie come il ritorno delle celebrazioni natalizie non politicamente corrette alla Casa Bianca.
Se, come dicono i repubblicani, il taglio alle tasse favorirà crescita, occupazione, e aumento delle retribuzioni, alle prossime elezioni il capo della Casa Bianca e il suo partito potranno ottenere anche più voti del 2016. Se invece, come denunciano i democratici, gonfierà il debito, cancellerà l’assistenza sanitaria per 13 milioni di persone, favorirà i ricchi a scapito della classe media e bassa, e non rilancerà l’economia, diventerà l’errore che potrebbe costare al Gop il potere.
Il punto centrale della riforma è la riduzione dell’aliquota per le aziende dal 35 al 20%, che è permanente. Secondo la teoria della «trickle-down economics» che Arthur Laffer aveva elaborato per Reagan, questa misura, sommata a quella sul rimpatrio dei capitali parcheggiati all’estero, dovrebbe favorire nuovi investimenti da parte delle compagnie, e quindi spingere la crescita verso il 4% e la disoccupazione sotto il 3%. Meno significativi invece sono i tagli alle tasse per i redditi individuali, che secondo il Gop beneficeranno il 70% degli americani, ma scadranno dopo 8 anni. Importante invece la cancellazione dell’obbligo di acquistare una polizza sanitaria sancito dall’Obamacare: mancheranno così i fondi per sostenere la riforma sanitaria e inoltre 13 milioni di cittadini perderanno la copertura assicurativa. Il resto sono dettagli importanti, ma meno determinanti.
Di sicuro c’è che questi tagli alle tasse da 1400 miliardi di dollari gonfieranno il debito, di 516 miliardi di dollari secondo la stima più ottimistica della Tax Foundation, e di 1,39 trilioni secondo quella più pessimistica di Penn Wharton. I repubblicani sono sempre stati il partito della responsabilità fiscale, accusavano i democratici di aver fatto saltare i conti pubblici, e volevano una riforma «revenue neutral», cioè in pareggio tra entrare e spese. Tutti questi principi sono stati abbandonati, in cambio della scommessa sulla crescita che verrà generata dalla riforma. E qui si gioca tutta la vera partita.
Trump è un miliardario che è stato mandato alla Casa Bianca dalla classe media e bassa, esasperata dalle perdite subite a causa della globalizzazione e dei nuovi meccanismi dell’economia moderna. Lo hanno scelto perché essendo ricco non aveva bisogno di fare i propri interessi, e poteva occuparsi dei loro. Se la riforma funzionerà, e gli emarginati che lo hanno votato lo avvertiranno nei loro portafogli, nelle elezioni di midterm del 2018 il Partito repubblicano avrà buone possibilità di conservare la maggioranza al Congresso, e nel 2020 Trump potrebbe anche aumentare i suoi consensi. Se invece fallirà, gonfiando il debito, lasciando l’economia in stallo, favorendo i ricchi e penalizzando i poveri, non basterà il muro lungo il confine col Messico a salvare il presidente, e non servirà l’inchiesta del procuratore Mueller a cacciarlo. Lo faranno gli elettori, come prevede la democrazia.
La Stampa