C’è chi non compra più azioni di aziende che estraggono petrolio e carbone e chi ha messo off-limits i titoli di tabacco e azzardo. Altri provano a cambiare il nemico da dentro, obbligando le imprese a ripudiare lavoro minorile e precariato
Non solo profitti ma pure opere di bene. La grande finanza – dopo aver causato un paio di crac che hanno mandato in fumo i risparmi di milioni di persone – si fa l’esame di coscienza e lancia la crociata per cambiare il mondo (questa volta, si spera, in meglio) sfoderando l’arma finale: i soldi. Regole precise e un regista, almeno per ora, non ci sono. C’è chi non compra più azioni di aziende che estraggono petrolio e combustibili fossili, chi ha messo del tutto off-limits i titoli di tabacco, armi e azzardo. Altri provano a cambiare il “nemico” da dentro. Obbligando le imprese di cui sono soci a ripudiare lavoro minorile e precariato a sospendere l’uso degli antibiotici negli allevamenti o a tagliare gli stipendi faraonici dei loro manager.
Una conversione ideale che sta iniziando a prendere i contorni dello tsunami: gli “investimenti etici” – fatti con una mano sul portafoglio e l’altra sul cuore – di fondi, banche, e grandi istituzioni sono balzati nel 2016 del 25% alla strabiliante cifra di 22.800 miliardi di dollari. La battaglia, visto l’arsenale messo in campo, sta iniziando a funzionare: i finanziamenti ai big del petrolio – compresi quelli in Borsa – sono calati nel 2016 di 86 miliardi (-22%). E la diserzione di un alleato così prezioso, gli azionisti di peso, ha convinto molti dei re degli idrocarburi ad accelerare la conversione verso l’energia rinnovabile. Sul mercato, del resto, il linguaggio del denaro è quello che si capisce meglio.
E la spinta etica di azionisti che spesso controllano quote importanti del capitale (o che non lo comprano per scelta) è difficile da ignorare.
Blackrock, uno dei colossi del risparmio mondiale, ha messo l’attenzione ai cambiamenti climatici tra le 5 priorità di scelta di un investimento. E con Vanguard, un altro big del settore, ha messo sotto pressione i cda dei big petroliferi Usa riuscendo a imporre standard ecologici molto più rigorosi. Gli uragani Irma e Harvey hanno convinto gran parte dei fondi pensione Usa a mettersi attorno a un tavolo per capire cosa potevano fare per far sentire la loro voce nella lotta ai cambiamenti climatici. E il conclave ha partorito una lettera spedita alle banche americane in cui si chiede a tutte di denunciare quante azioni del settore petrolifero hanno in portafoglio, minacciando di snobbare le più esposte. Un gruppo di fondi con 8 trilioni in portafoglio ha lanciato la “Workforce disclosure initiative”, inviando a decine di grandi imprese mondiali un questionario di 22 pagine sulle condizioni di lavoro dei loro dipendenti, con domande su precariato, differenza stipendi tra uomini e donne e sicurezza nelle fabbriche.
Queste forme di moral suasion “finanziaria” danno buoni frutti: l’80% delle aziende alimentari Usa passate ai raggi X dagli ispettori di fondi e banche azioniste per verificare l’abuso di antibiotici in stalla ha accettato di ridurne e monitorarne l’utilizzo. Chi non si adegua rischia di pagare un prezzo salato: sette grandi fondi pensione europei hanno venduto i titoli Ryanair contestandone le cattive relazioni industriali con i dipendenti. E la loro ritirata è stato uno dei detonatori fondamentali per far scoppiare la guerra con i piloti che ha mandato a picco i titoli in Borsa (-20% in un paio di mesi). L’onda lunga degli investimenti responsabili – in attesa di decidere delle norme condivise – non sembra destinata ad arrestarsi. Tutti e 500 i grandi fondi sovrani e pensione mondiali intervistati in un sondaggio recentissimo da Schroder hanno ammesso che il mercato, spinto dalle scelte dei singoli investitori, è in forte crescita.
“Le aziende che snobberanno questo fenomeno se ne pentiranno “, ha vaticinato Mick Carney, governatore della Bank of England. Il fondo pensione pubblico giapponese – il più grande del mondo con 1.300 miliardi gestiti – ha creato tre fondi etici ad hoc con 9 miliardi in portafoglio preannunciando che si tratta solo di un primao passo. La riassicurazione elvetica Swiss Re ha deciso di utilizzare come benchmark (parametro di confronto) delle sue performance gli indici che raccolgono solo aziende socialmente responsabili. La stessa Chiesa inglese ha creato un “Climate change ranking” che utilizza per decidere su quali aziende orientare i suoi – tantissimi – fondi. I nuovi improbabili paladini dell’etica mondiale hanno solo un timore: che le opere di bene, alla fine, vadano a detrimento dei profitti. La cosa per cui, in fondo, li paga chi affida loro i suoi risparmi. Secondo il rapporto di Schroder il 44% teme che investire con la testa e il cuore oltre che con il portafoglio possa diminuire la performance finanziaria dei loro patrimoni. Certezze sul tema non ce ne sono. Un paio di anni fa la London School of economics aveva certificato in uno studio che i “titoli del peccato” (alcol azzardo e tabacco su tutti) rendono nel lungo termine di più del resto del mercato. Il Vice Fund – il nome dice da solo dove investe – ha regolarmente fatto meglio sui listini Usa del rivale Ave Maria Catholic Value.
Il vento però, complice anche il boom di capitali freschi arrivato sul fronte etico, sta ora girando. L’indice azionario Msci – quello che include solo le grandi aziende “eticamente responsabili”- ha fatto meglio di quello “generico” dello 0,39% l’anno dal 2012 ad oggi. Sui mercati emergenti le 417 aziende “verdi” hanno dato ritorni superiori del 60% rispetto al resto del listino negli ultimi 10 anni. Il mercato dei Green bond è lievitato dai 12 miliardi del 2012 ai 123 previsti quest’anno. E le aziende stanno interiorizzando il new normal: la bontà, oltre a regalare il paradiso, oggi fa pure salire di più i titoli in Borsa.
Ettore Livini, Repubblica.it