Per la prima volta il fondatore spiega i meccanismi per la successione e i progetti dei prossimi decenni. Cambio nel digital. Investimenti negli accessori. Ancora «no» ai poli del lusso. Ma quella volta con Luxottica…
Giorgio Armani non ha mai amato parlare della sua successione, e lo ha sempre ammesso. Eppure è questo l’argomento che più lo ha impegnato — mentalmente, emotivamente, concretamente — negli ultimi anni e ancora lo coinvolge. Perché, come solo alcuni imprenditori sanno fare, assicurare la continuità e la prosperità di ciò che hanno creato — per sé, per i dipendenti, per i fornitori, per i territori in cui sono presenti, insomma per quelli che oggi si chiamano stakeholder — è la spinta più importante della loro vita. Armani ha impiegato cinque anni per arrivare a trovare l’architettura giusta e, alla fine di questo lungo studio, ha deciso che dovesse avere la forma di una fondazione. Un istituto di diritto italiano in linea con la struttura semplice e italiana che ha sempre avuto il suo gruppo. Per annunciare ciò che il mercato attendeva di conoscere da tempo, lo stilista-imprenditore non ha fatto proclami, ma ha usato un comunicato di poche righe diffuso in piena estate lo scorso anno. Poi, silenzio. Ma il tempo delle spiegazioni è arrivato e coincide con quello di una revisione delle strategie teso a disegnare il volto della Giorgio Armani dei prossimi decenni. Si susseguono riunioni, investimenti, riorganizzazioni per adattare il gruppo ai tempi nuovi senza che si perda — su questo Giorgio Armani è chiaro, e lo ha messo per iscritto alle nuove generazioni — la coerenza che lo ha portato fino a 2,5 miliardi di euro di ricavi, con l’obiettivo di crescere e resistere molto a lungo nel tempo. Un qualcosa però — lo dice — «che io non vedrò e questa è una cosa pesante, molto pesante. Perché un conto è essere una persona in là con gli anni, un conto è avere sulle spalle la vita di 8mila persone, di 8mila famiglie. Il tempo, ecco … sono stupito dalla velocità con la quale sono arrivato fin qui. Il tempo che ho concesso alla mia professionalità e a ciò che ho creato è tanto… Mi sono chiuso tra il 21, il 18, l’11 (numeri civici di via Borgonuovo a Milano, dove hanno sede gli uffici più importanti della società, cui si è aggiunta nel tempo la sede di via Bergognone sempre a Milano, ndr), oppure nelle grandi città internazionali per partecipare agli eventi, ma senza mai conoscere veramente i luoghi. Il mio mondo è qua. Mi interrogo su questa mia scelta di vita, ma si devono fare i conti anche per il proprio carattere, con ciò che si è. Io sono me stesso e non potrei mai essere diverso da così». Giorgio Armani è seduto nel suo studio, al suo fianco il direttore generale Livio Proli, l’uomo che guida la squadra manageriale che si è strutturata nel tempo. Sarà un dialogo lungo nel quale Armani non si risparmia. Per necessità di spazi, molto sintetizzato.
Partiamo dalla Fondazione che ha creato e a cui ha trasferito per ora lo 0,1% della Giorgio Armani spa, la capogruppo. Quale ruolo avrà e chi la guiderà?
«La Fondazione ha un doppio scopo. Da una parte reinvestire capitali a scopo benefico e dall’altra garantire l’equilibrio nella Giorgio Armani spa. Quello che abbiamo creato è un meccanismo che stimoli i miei eredi a restare sempre in armonia e che eviti che il gruppo venga acquistato da altri o spezzettato. Finché sarò in vita a guidare la Fondazione sarò io, poi saranno tre persone nominate da me».
Nella fondazione ci sarà anche qualcuno dei suoi eredi?
«I miei aventi diritto continueranno, come oggi, a far parte del consiglio di amministrazione della Giorgio Armani spa e saranno proprietari di quote della società che ho destinato loro attraverso un testamento. Il consiglio vedrà anche la presenza di un rappresentante del management, come oggi, più due soggetti esterni. Tutto il progetto è stato presentato alla mia famiglia (oltre ai tre nipoti e alla sorella, storicamente comprende anche Leo Dell’Orco, il responsabile dello stile uomo, da sempre in Cda, ndr) durante il consiglio di amministrazione in cui, lo scorso anno, ho deciso di istituire la Fondazione».
Come funziona il meccanismo di protezione da eventuali dissidi familiari?
«Non credo, e non mi auguro, che ci saranno tensioni, ma ho scelto volutamente di avere un consiglio di amministrazione in numero pari: in caso di pareggio sarà la Fondazione a decidere. Sarà l’ago della bilancia. Deciderà come avrei deciso io sulla base di linee guida che ho già scritto, spiegando quali sono i criteri con i quali muoversi in una situazione di impasse e che si basano su tre parole: coerenza, lealtà e fedeltà all’azienda».
Da Warren Buffett a Bill Gates negli Stati Uniti sta crescendo la corrente di pensiero che vuole il trasferimento delle ricchezze non alla famiglia ma ad attività di beneficenza. Per quanto concesso dalle nostre leggi, che sono diverse, ha seguito anche lei questa strada?
«I miei eredi saranno più che contenti di quello che sarà il lascito personale. Ma al loro fianco avranno la Fondazione che sarà una realtà economica importante per poter mettere a frutto ciò che la Giorgio Armani è diventata finora e che aiuterà il gruppo a crescere ancora di più».
È esclusa per sempre una possibile vendita o no?
«Una parte della Giorgio Armani passerà direttamente alla Fondazione. Sono, poi, previsti dei meccanismi per i quali i miei eredi potranno eventualmente liquidare la propria quota cedendola alla stessa Fondazione».
Il management avrà delle azioni?
«Avrà delle qualifiche ma non delle azioni».
Cosa sarà degli immobili?
«Quelli che fanno capo alla Giorgio Armani seguiranno l’azienda madre. Per gli altri, sto valutando quelli che deciderò che diventino privati. È una cosa non mi fa dormire la notte. Mi creda: è orrendo dover decidere lascio questo o questo, è giusto o non è giusto, ogni cinque minuti sei messo di fronte alla realtà di un uomo a cui può capitare improvvisamente qualcosa. È così per tutti, ma è più facile a 83 anni».
A quali attività non profit sarà rivolta la Fondazione?
«Non a una specifica ma a tante, abbiamo tutti i giorni richieste… Ci occuperemo un domani, come oggi, dei bambini e degli anziani bisognosi, così come dell’urbanistica e dello sport come educazione per i giovani. Insomma, di tutto ciò che può dare un valore all’essere umano».
Lealtà, coerenza… Non sono parole troppo comuni oggi.
«Meno male che sono legato a questi valori che hanno sempre rappresentato dei paletti sia nella mia vita privata che in quella professionale».
Veniamo alla Giorgio Armani di oggi. Il 2016 ha visto una riduzione dei ricavi del 5%, l’inizio di una crisi?
«Se un’azienda che ha 880 milioni in cassa — e ne avrà 1 miliardo alla fine di quest’anno — è un’azienda all’inizio di una crisi… Avremo una flessione dei ricavi della stessa entità anche nel bilancio di quest’anno e in quello del 2018. Si tratta di una scelta pilotata che prevede una ripresa nel 2019».
In che senso pilotata?
«Quando, nel 2014, abbiamo ricomprato A/X Armani Exchange abbiamo avuto una crescita del 14% data dall’aver incorporato i suoi 300 milioni di fatturato. L’acquisizione è stata voluta per far fronte a un’azione non soddisfacente e, dal 2016, abbiamo iniziato a riposizionare il marchio, riducendo la distribuzione per creare le condizioni di un nuovo sviluppo. Ma senza rompere dall’oggi al domani legami con nostri partner storici, ci vuole il giusto tempo e il giusto tempo ha dei costi».
Avete anche incorporato in Emporio le linee Armani Collezioni e Armani Jeans. Perché?
«Questo è un momento di estrema confusione sul mercato, nella moda si vedono proposte di ogni genere, anche molto stravaganti e che poi creano difficoltà di vendita ai negozi. Per quanto ci riguarda, abbiamo voluto semplificare l’offerta per dare maggior chiarezza ai clienti inglobando linee che rappresentavano un particolare momento storico, in un certo senso abbiamo fatto autocritica. I nostri marchi adesso sono Giorgio Armani, Emporio Armani e Armani Exchange, che si affiancano all’alta moda di Privé e ad Armani casa».
Finora non avete spinto sul digital. Si dice che arriverà un nuovo manager.
«Sì, è arrivo un nuovo manager (al posto di Barbieri, ndr) di cui non possiamo ancora fare il nome. Sul fronte digital però abbiamo lavorato molto, anche se forse comunicato poco. Questa settimana lanciamo il nuovo sito dove, al momento, saranno presenti Giorgio Armani ed Emporio, stiamo riflettendo su quali siano le strade più opportune, se avere tutti i marchi in un unico”contenitore” o su spazi distinti. Abbiamo, poi, appena rinnovato il contratto con Ynap per 10 anni. Ancora: nei giorni scorsi ci hanno fornito la piattaforma nuova e abbiamo appena finito di allestire il centro di produzione dei contenuti digitali nella sede di via Bergognone, un investimento di diversi milioni che ci consentirà in tempi brevissimi di creare contenuti fotografici e video e pubblicarli immediatamente. Il tutto andrà a regime a marzo prossimo, grazie anche all’arrivo del nuovo manager che avrà una forte competenza ecommerce».
Siete specialisti dell’abbigliamento, volete continuare così?
«No, ho l’ambizione di diventare anche un buon accessorista. Su questo stiamo lavorando».
Ci avevate già provato, ora pensate ad acquisire un marchio?
«Abbiamo verificato la possibilità di un’acquisizione ma non sono dell’idea, ho sempre pensato che portino grandi complicazioni. Nel 2009 avevamo rilevato Guardi, nelle scarpe, e De Mutti, nelle borse, ma non ha funzionato come nelle nostre attese. E, poi, se devo dire a qualcun altro cosa fare, tanto vale fare da soli. Così, stiamo costruendo la filiera necessaria: abbiamo reclutato specialisti che vengono da aziende di accessori e lanceremo la prima collezione in primavera per l’autunno/inverno 2018. Sarà solo per i nostri negozi e per alcuni clienti opinion leader che possono darci un riscontro se siamo sulla strada giusta. Se tutto andrà come deve, il vero lancio sarà con la primavera/estate».
Quali obiettivi avete in termini di numeri?
«Oggi realizziamo l’85% del fatturato con l’abbigliamento e il 15% con gli accessori, vogliamo che questo rapporto diventi 70/30 nel giro dei prossimi tre anni».
Alla Scala di Milano l’immagine di lei, Miuccia Prada, Pierpaolo Piccioli di Valentino e Alessandro Michele di Gucci durante la scorsa iniziativa MilanoXL. Valentino e Gucci sono in mani estere. Ma lei e Prada no. Davvero come dice Francesco Trapani, ex ceo di Bulgari e oggi azionista di Tiffany, è troppo tardi per avere un gruppo italiano delle dimensioni di Lvmh o Kering?
«Secondo me non ce n’è bisogno. Se poi si fa un discorso del potere che ha Vuitton per esempio nei confronti della stampa o sul fronte degli investimenti è chiaro che il dubbio ti viene. Ma io a casa mia voglio comandare, nel senso positivo del termine, cioé di poter scegliere. Qui siamo nel gruppo Armani, con la nostra identità, il nostro credo. Almeno fino a quando io sarò qua».
Davvero non ha mai pensato a vendere?
«Avrei potuto farlo tantissime volte e ci sono stati casi in cui dire no è stato difficile — soprattutto con i fondi di private equity — perché sono soldi, tanti, subito… Ma non è nel mio Dna. E per fortuna sono talmente occupato nel mio lavoro quotidiano che mi viene evitato di pensare anche a questo».
A un certo punto si è parlato di un progetto comune con Luxottica, società che fa i vostri occhiali e di cui lei ha il 5%.
«C’è stato un momento in cui avremmo potuto fare qualcosa ma in Luxottica c’era un management con cui non sarei mai potuto andare d’accordo. Ammiro molto Del Vecchio, quello che ha fatto è eccezionale».
Il 5% di Luxottica se lo tiene.
«Certo, e anche stretto. Dopo la fusione con Essilor diventerà il 2,5% di un gruppo integrato molto potente».
Intanto lei è qui, al suo tavolo.
«Come sempre. Voglio rassicurare tutte le persone che mi dicono che proseguire il mio cammino coerentemente con le mie scelte e priorità, valide allora, valide oggi e domani, che ci sono e ci sarò».
Maria SIlvia Sacchi, L’economia de Il corriere della Sera