Dialetto, vino e umanità Il gladiatore chiamato Parón. Il ritratto di un allenatore capace di cambiare il calcio con la forza delle sue idee e del suo carisma inarrivabile. Fu il primo a portare in Italia la Coppa dei campioni.
«Scusi, Parón, come vanno i rapporti tra lei e Gipo Viani?». «Ottimi! Meglio non si potrebbe. Quando vinciamo, è merito di Gipo; quando perdiamo, la colpa è mia…». Il Parón era il popolarissimo allenatore Nereo Rocco. Con Giuseppe «Gipo» Viani, dirigente, una formidabile coppia (due amici, ed era vero!) alla guida di un grande Milan, negli anni Sessanta e Settanta. La battutaccia – che poi vale spesso nei matrimoni, negli affari, in qualsiasi sodalizio – era una delle tante esternazioni argute di Rocco, un triestino affabile, loquace, coinvolgente. Tra gli allenatori, a mia memoria il più simpatico, insieme con Oronzo Pugliese, di stile popolaresco estremo, e Fulvio Bernardini, di raffinata eleganza. Nostalgia, rimpianto dei grandi personaggi che c’erano una volta? Non credo. Sfido chiunque a sostenere che Arrigo Sacchi, Giovanni Trapattoni, Massimiliano Allegri, ma anche il mio idolo Fabio Capello, siano paragonabili – per empatia – ai tre mattatori. Forse solo Carlo Ancelotti si avvicina per semplicità, ma è assai meno trascinante. Alla vigilia di una partita contro una grande squadra un cronista gli dice: «Allora, Parón: vinca il migliore!». E lui, pronto: « S p e r e m o de no…». Il dialetto era la sua forza, il suo codice tanto comprensibile quanto intraducibile. Al suo calciatore Alberto Bigon: «Ti te ga studià, vero? E alora, mona de un dotòr, tradusi, che questi no conossi le lingue». «Pelè? Mi no credevo che un omo podessi far questo!». Ai calciatori prima della partita: «A tuto quel che se movi su l’erba, daghe! Se xe ‘1 balon, no’ importa ! ». Ai calciatori, durante l’intervallo, se la partita stava andando male: «Testa de gran casso, ti e anca quel che t’ha messo in squadra». Ai calciatori anziani: «Te jèri campion, no’ ti poi finir bidòn!». Sugli allenatori: «Dal lunedì al venerdì, i xe olandesi. Al sabato, i ghe pensa. La domenica, giuro su la mia beltà, tuti indrìo e si salvi chi può». Sulla sua partecipazione alla Domenica sportiva: «Mi go fato el paiazzo in spogliatoio par tanti ani parché me divertivo, non poso farlo in televisiòn parché se diverta el siór Tito Stagno». Su Dino Sani: «Gavemo comprà un impiegà del catasto. Gipo nostro ga fato rimpatriar el nonno». A Nestor Combin: «Tasi ti, che ti xe tanto testa de mona, che tuti i mesiteperdisanguedelnaso». Su NilsLiedholm: «Quel mona de Baròn ! Con lu me toca sempre parlar italian». A Giovanni Trapattoni in un dopo partita: «Maria Vergine! Ma quante monade dise Giovanni nostro!». Sui colleghi: «Solo noi femo el catenaccio, i altri fa calcio prudente!». A un giornalista francese che lo salutava così: «Monsieur Rocco, mon ami…». «Mona a mi? Mona a ti e anca testa de gran casso». L’ho incontrato la prima volta a Torino, quando aveva lasciato il Milan e allenava la gloriosa squadra granata, per un’intervista al Corriere dello sport. Ero molto giovane, emozionato. Lui era ormai un mito vivente del calcio italiano. E sapeva mettere tutti a loro agio. «Bocia! », mi gridò e poi, ovviamente metà in triestino e metà in veneto, ma non saprei tradurre: «Bocia, aspetta che finissa ‘sta monada de alenamento, poi se metemo tranquili davanti al me spogliatoio, se beven un goto de vin, anca due o tre, e te me chiedi quel che te vol…».Emiguardòsospettoso: «Non sarai tanto mona che vieni da Roma e no te piase el vin?». Lo rassicurai, anche se all’epoca ero pressoché astemio, e lo aspettai: davanti al suo spogliatoio c’era un tavolino già apparecchiato con una bottiglia di Barbera e due bicchieri. Finì l’allenamento e mi raggiunse. Non ricordo una parola: solo la sua spontaneità, l’ottimo umore, la simpatia. Ci scolammo la Barbera – diedi, coinvolto, il mio contributo – e ci salutammo con un abbraccio, come vecchi amici. Aveva l’età di mio padre, era nato nel 1912! Ricordo che mi disse, sempre con spreco di mona qui e là: «Devi venire a Trieste, a casa mia: in cantina ho vini buoni, ti piaceranno, niente a che vedere con questa Barberaccia», come se fossi un esperto o un appassionato. Lo ringraziai disinvoltamente: ero brillo, lui invece perfettamente lucido. Quanto al vino, Gianni Brera in un’intervista giustamente gli disse: «Quando ci ubriachiamo, noi italiani diciamo che abbiamo bevuto: quando bevono gli altri, diciamo che sono ubriachi». Gioanbrerafucarlo certo si intendeva di vino mille volte più di me, ma con Nereo Rocco era un bel duello. Il Parón assentì. Descritto così, Rocco potrebbe apparire – a chi non l’abbia conosciuto – un personaggio folcloristico. Macché! È stato un eccezionale allenatore di calcio, iperrealista. Il Milan, nei festeggiamenti per i primi cent’anni di vita del club, lo designò come l’allenatore del secolo. Ha vinto tantissimo. Come calciatore era stato dignitoso: una mezzala combattiva, con il senso del gol. Debutto nella Triestina a 17 anni, sette stagioni in biancorosso, anche una presenza in Nazionale: contro la Grecia, 4-0. Poi al Napoli per tre anni e due a Padova all’inizio della seconda guerra mondiale. Da allenatore, la grande fama: subito ottimi risultati con la Triestina, poi il Treviso, ancora Triestina e a seguire sette anni – dal 1954 al 1961 – nel Padova: un successo incredibile, imprevedibile, trionfale. Due anni al Milan, quattro al Torino, quando lo conobbi; ancora al Milan per sette anni, uno alla Fiorentina e infine l’ultimo di nuovo al Milan. Ha vinto due volte lo scudetto, tre volte la Coppa Italia, due volte la Coppa dei campioni (fu il primo in Italia), due volte la Coppa delle coppe. E una volta la Coppa intercontinentale: a Buenos Aires, nel 1969, c’ero anch’io. Non potrò mai dimenticare la forza d’animo, la solidarietà verso il suo campione Nestor Combin, argentino, che era stato arrestato – subito dopo il successo milanista – con l’accusa di aver disertato il servizio militare. Impose la linea: «Il nostro aereo non riparte, se prima Nestor non viene rilasciato». E così fu. Ho scritto: simpatico a tutti, grande fama… Non è proprio andata così. Il Parón dovette sudare molto, diciamo fino all’arrivo al Milan, prima di conquistare il pieno successo. Era apprezzato dalla maggior parte degli addetti ai lavori, dai pochi giornalisti imparziali, era amico dal sommo Brera, che adorava le tattiche difensive. Ma era detestato dal pubblico delle squadre avversarie e dai giornalisti tradizionalisti, che avversavano il sano e concreto realismo di Rocco («primo non prenderle, poi in contropiede si vedrà»). Il bello è che il catenaccio, il verrou di origine svizzera, era stato già adottato da Alfredo Foni, che così vinse due scudetti nell’Inter. Nereo lo razionalizzò scientificamente, con difensori come Ivano Blason, battitore libero, Aurelio Scagnellato, Giovanni Azzini. Il libero di fronte alla difesa, centrocampo di lottatori, contropiedisti veloci e concreti. «Sono stato attaccato come rozzo ultra difensivista, ma nel Padova ci furono cinque miei attaccanti convocati…». Niente da fare! In ogni campo ostilità pesanti, insulti. «Una volta, dopo una partita con l’Inter, Italo Allodi mi regalò un soprabito nuovo, con le scuse sue e di Angelo Moratti, per come i tifosi nerazzurri mi avevano conciato l’impermeabile». In quei frangenti, venne fuori ancora una volta l’umanità del Parón. Disse ai suoi senatori: «Sono convinto delle mie idee, ma non voglio rovinare voi che avete la vita davanti. Se volete cambiamo schema di gioco…». Scagnellato in primissima, poi Blason e Azzini e tutti i giocatori lo sostennero: «No, mister, vada avanti per la sua strada, è la tattica giusta». Già nella Triestina nel 1947 era arrivato secondo, alla pari con Juventus e Milan, alle spalle del Grande Torino. Nel Padova, il capolavoro: grazie anche all’ingaggio sapiente dello svedese Kurt Hamrin, reduce da un grave infortunio. Terzo posto, sesto, quinto, ancora sesto… Il Padova era diventato una grande realtà. E dopo una fantastica vittoria sul Milan (4-1) Andrea Rizzoli e Gipo Viani lo vollero alla guida dello squadrone rossonero. E finalmente qui ottenne la consacrazione, con trionfi che gli permisero di entrare nella storia del calcio. A Milano con intelligenza modificò i rudi ed efficaci schemi tattici che avevano reso grande il Padova. Seppe utilizzare a meraviglia la qualità dei campioni che il club gli aveva posto a disposizione: in primis Gianni Rivera, ma anche Combin, Hamrin, José Altafìni… Il suo carattere restò immutato: dialetto, affetto e confidenza con i giocatori, battute scherzose, compattamento assoluto del gruppo. Rivera nega che Rocco possa mai aver detto ai suoi giocatori, come anch’io ho riferito, di colpire con decisione qualsiasi cosa si muovesse in campo, non importa se il pallone o le gambe degli avversari. «Neanche da ubriaco avrebbe detto una sciocchezza simile, era un grande sportivo, prima di tutto». Subito prima della finalissima con l’Ajax, si racconta che un suo giocatore, Saul Malatrasi, gli disse: «Mister, cambiamo la marcatura su Cruijff», che già Rocco aveva deciso di affidare a Mario Angelo Anquilletti. Hendrik Johan Cruijff era l’astro temutissimo dell’Ajax. Rocco finse di non sentire, Anquilletti se la cavò benissimo, il Milan vinse per la seconda volta la Coppa dei campioni. Prima di spegnersi, nella sua Trieste, il 20 febbraio 1979, a soli 66 anni, l’ultima battuta. Il figlio gli chiese qualcosa e lui sorridendo – poche ore prima della fine – mormorò: «Dame el tempo…». Gianni Brera gli dedicò uno straziante articolo, in cui ricordò che il grande amico, consapevole della fine imminente, gli aveva mandato gli auguri per Natale scrivendogli: «Brinda tu, anche per me. Non sai come sono ridotto: mi obbligano a bere solo acqua minerale». NEREO ROCCO Ron kroon ,anefo 44 «Migofato el paiazzo in spogliatoio par tanti ani parché me divertivo, non poso farlo in televisiòn parché se diverta elsiór Tito Stagno. Dal lunedì al venerdì gli allenatori i xe olandesi Al sabato i ghe pensa Ladomenica tuti indrìo e si salvi chi può»
Cesare Lanza