Austerità, debito, disuguaglianze. Secondo Tim Jackson l’economia convenzionale basata sulla crescita ha fallito: serve un nuovo modello basato sul benessere condiviso in equilibrio con le risorse finite del pianeta
A quasi dieci anni dalla prima pubblicazione, “Prosperità senza crescita” torna sugli scaffali delle librerie con una nuova edizione, aggiornata al 2017. Un’analisi lucida sul fallimento dell’economia convenzionale basata sulla crescita infinita, in un mondo dalle risorse finite. Un mondo colpito da enormi diseguaglianze economiche e sociali e afflitto dai cambiamenti climatici. Nel nuovo volume presentato in anteprima al Festival della letteratura di Mantova, Tim Jackson, docente di sviluppo sostenibile all’Università del Surrey e direttore del Centre for the Understanding of Sustainable Prosperity (CUSP), propone un’idea alternativa di prosperità, con percorsi credibili capaci di portare alla conciliazione tra i limiti ecologici e il desiderio umano di benessere. Un nuovo modello economico, più equo, dove il “profitto a tutti i costi” viene sostituito da una prosperità condivisa.
La prima edizione del suo libro nasce da una consulenza al Governo britannico, poi bocciata, negli anni della crisi finanziaria ed economica. Cosa è cambiato nel frattempo?
“La crisi economica ha avuto un profondo impatto su come pensavamo l’economia e la politica. Ha portato alla luce le disuguaglianze, le profonde differenze tra i più ricchi e i più poveri. Ciò che è interessante è che tutto questo è arrivato in un momento durante il quale tutto il mondo doveva decidere di agire nei confronti del cambiamento climatico. Certo (oggi) abbiamo una finanza più stabile, banche più forti, ma continuiamo a non aver sufficienti investimenti nelle tecnologie per affrontare i cambiamenti climatici, anche nove anni dopo la crisi. Viviamo in un mondo completamente diverso. La rottura era già nell’aria ancora prima della crisi finanziaria. Il modello stava già cadendo a pezzi: l’idea di un’economia che promuove sempre più i consumi, se necessario creando sempre più debito, non funziona. Quando arrivò la crisi finanziaria, sembrava che tutto potesse tornare come prima. Ma questo modello crea disuguaglianze, crea problemi ambientali, crea un sistema finanziario instabile. Non sta migliorando la vita delle persone, rendendole più felici”.
Perché secondo lei ancora oggi parte della politica e del mondo economico faticano ad accettare l’idea dell’impossibiltà di una crescita infinita in un pianeta dalle risorse finite?
“Perché abbiamo un modello basato sulla crescita. Pensiamoci un attimo. Da una parte sappiamo di vivere in un mondo dalle risorse definite, dall’altra abbiamo un sistema economico che ci dice che più consumiamo, meglio è. Gli ecologi ci dicono che non possiamo espanderci oltre al nostro pianeta, mentre gli economisti rispondono che la tecnologia potrà rendere efficienti tutti i processi, impiegando meno risorse. È il cosiddetto decoupling (disaccoppiamento), ovvero il trucco magico con il quale potremmo realizzare qualsiasi bene o servizio in maniera più efficiente. Ma quanto realistica è questa idea? Quanto velocemente dobbiamo sviluppare nuova tecnologia perché questo trucco magico funzioni? Certo negli anni c’è stato un aumento dell’efficienza, ma ciò che stiamo vedendo ora è un rallentamento nella riduzione del consumo di risorse. Negli ultimi anni le emissioni si sono sì stabilizzate, ma non ridotte. Tutto questo indica che il decoupling non è sufficiente e non sta funzionando”.
Negli ultimi anni si sta facendo strada il concetto di economia circolare, supportato anche dall’Europarlamento. Cosa ne pensa?
“L’economia circolare è un’idea fantastica, come il pensiero di rendere tutto il sistema economico più efficiente, ma non è sufficiente. E non affronta il problema centrale dell’economia. Se pensiamo che l’economia circolare possa dare nuova linfa alla crescita economica, rendiamo tutto più difficile. Cioè se vogliamo che l’economia cresca sempre più velocemente, dovrà diventare sempre più circolare, più efficiente. E questo è estremamente difficile. Dovremmo iniziare a pensare, piuttosto che ad un sistema di produzione di massa, ad uno in grado di fornire prodotti e servizi di cui le persone abbiano realmente bisogno a livello locale, per incrementare la loro qualità di vita”.
Dovremmo quindi pensare a ridistribuire la ricchezza. E come?
“Ciò che il capitalismo fa è di ampliare sempre più questa differenza (tra i più ricchi e le frange più povere della popolazione), piuttosto che ridurla, a meno che non vengano ridistribuiti i guadagni e gli asset. E per fare ciò ci sono tre modi. Uno è quello di aumentare la tassazione nei confronti della parte più ricca della popolazione. C’è poi la partecipazione dei lavoratori al capitale aziendale: in questo caso la proprietà dell’impresa è in mano ai lavoratori, ed è così possibile ridistribuire la proprietà dei beni e dei capitali. La terza è la protezione del lavoro salariato: se rallentassimo leggermente la sostituzione del lavoro con la tecnologia e proteggessimo il lavoro salariato, automaticamente potremmo ridistribuire la ricchezza, perché ridurremmo la differenza tra salario e profitto.
Rudi Bressa, La Stampa