Il Vecio che cambio l’Italia amava la pipa e il jazz e detestava il calcio di oggi
Fu il condottiero, l’eroe sportivo dell’impresa romanzesca ai mondiali di Spagna 1982 Un uomo sobrio, timido e di poche parole, totalmente legato alle sue idee e ai suoi valori.
«Questa squadra è una vergogna. Scenderei volentieri negli spogliatoi per prenderli tutti a calci nel sedere». È la memorabile frase – nel 1982 – di Antonio Matarrese, all’epoca presidente della Lega calcio: rivolta alla Nazionale, che poi avrebbe trionfato al campionato del mondo con vittorie entusiasmanti sull’Argentina, sul Brasile, sulla Polonia e infine sulla Germania. Tutti i nostri giocatori si offesero e uno dei più tosti, Franco Causio, non a caso detto il Barone, replicò come un nobile per una sfida a duello: «Ah sì? Questo signore venga nello spogliatoio e ce le dica in faccia, queste cose!» Ma Matarrese non andò. «Vi è stato un segnale e questa squadra lo ha raccolto, ha insegnato tanto e ha ancora molto da insegnare… Merita onori e rispetto!» Indovinate l’autore di questa seconda frase, pronunciata alla vigilia della finalissima con la Germania? Sempre lui, il presidente Matarrese, simbolo emerito degli italiani pronti a cambiare bandiera, secondo dove tiri il vento. Enzo Bearzot fu il condottiero, l’eroe sportivo dell’impresa romanzesca in Spagna. Mi era sempre piaciuto e, nonostante sporadici rapporti, 10 stimavo incondizionatamente fin dal 1978, quando in Argentina aveva guidato la Nazionale (per qualità di gioco perfino superiore a quella del 1982), lanciando coraggiosamente due giovanissimi, Paolo Rossi, subito ribattezzato Pablito, e Antonio Cabrini. Quella Nazionale nella prima partita aveva battuto a Buenos Aires, con una prestazione strepitosa, proprio l’Argentina – che poi avrebbe vinto 11 mondiale. E le aveva inflitto la mortificazione di dover sloggiare dalla capitale, lasciandoci il posto, per le partite successive… Bearzot mi piaceva perché era un uomo sobrio, timido e di poche parole (al punto di apparire brusco e scontroso), irriducibilmente legato alle sue idee e ai suoi valori, insensibile ad attacchi e pressioni, alle chiacchiere e ai pettegolezzi che infestano, senza tregua, il mondo del calcio. Presumo che anche Bearzot avesse qualche minima simpatia per me, forse perché ero estraneo alla quotidianità degli eccessi del giornalismo sportivo (dirigevo all’epoca II Lavoro di Genova), forse perché – quando lo sentivo – gli rivolgevo domande dirette, senza mellifluità polemiche. Bisogna dire che Bearzot, paragonabile al leggendario Vittorio Pozzo, fu curiosamente investito- nonostante il successo – da estenuanti, implacabili critiche. A parer mio, la ragione può essere solo una: la sua totale estraneità a cricche d’ogni tipo, l’assoluta indipendenza intellettuale: per di più manifestata in maniera anche forte (come successe in Spagna), ma ineccepibile, senza chiassose verbosità. Ho già detto che fu un’impresa romanzesca e spiego perché. Contro di lui, e contro la sua eccellente Nazionale, nel 1982 si era accesa la più violenta e stordente campagna stampa che io ricordi, per ostilità, nel mondo del calcio. I soloni della critica – il grande Gianni Brera in prima fila – e al completo 0 quasi i giornalisti, inviati e commentatori, lo aggredivano con opinioni di sfrenata avversità, lo deridevano, lo trattavano come un pisquanotto alle prime armi. I lettori adulti e anziani lo ricordano bene, ai più giovani forse apparirà stupefacente: ci fu perfino chi arrivò a insinuare che Rossi e Cabrini, nel ritiro spagnolo, dormivano nello stesso letto, «come marito e moglie», testualmente. All’epoca non c’erano tolleranti aperture verso l’omosessualità, non c’era un papa Francesco che dicesse «chi sono io per giudicare?». Essere indicati come gay (e per di più l’insinuazione era falsa) rappresentava un’accusa intollerabile, un’offesa seria. Gli azzurri si i n c a z z a r o n o di brutto, la squadra compatta decise il silenzio/stampa, nessuno avrebbe più parlato con i giornalisti. Dino Zoff fu designato come portavoce di tutti, era il più taciturno e riservato: si sarebbe limitato a dichiarazioni formali. Di recente Zoff ha ricordato che successe addirittura che i giornalisti italiani, per protesta, si allontanassero, quando appariva lui, dalla sala riservata alle conferenze stampa. Le forti critiche, alla vigilia del mundial, erano assolutamente pretestuose: forse, a parte i personalismi e le antipatie private, il nostro giornalismo preferiva le trionfali vittorie di Edmondo Fabbri nelle fare amichevoli della vigilia (poi fummo eliminati dalla Corea…). La Nazionale di Bearzot stentava invece a ingranare ed era sommersa dalle critiche: Brera e i suoi seguaci devoti erano convinti che avremmo fatto una pessima figura; tutti gli altri erano prudenti, ma ugualmente scettici. Che io ricordi eravamo solo in due a sostenere esplicitamente «il Vecio», così era stato ribattezzato Bearzot, che per la verità non era affatto vecchio. Io e Gianni Minà. Chiedo scusa se dimentico qualcun altro. E comunque io, con il piccolo giornale genovese, non contavo nulla. Ricordo una puntata del Processo del lunedì del leggendario Aldo Biscardi (pronto a cavalcare qualsiasi onda che gli portasse ascolto) in cui fui spernacchiato, 0 quasi, semplicemente perché avevo invocato un po’ di pazienza e di fiducia per la nostra squadra. Ma perfino il presidente della Federazione calcio, Federico Sordillo, prima perfino di Matarrese, diceva che era meglio restare a casa, se la nostra squadra era quella vista negli allenamenti. Sostenuti da questo po’ po’ di incoraggiamento, mediatico e federale, gli azzurri oggettivamente delusero nelle prime tre partite del girone eliminatorio: tre pareggi con Polonia, Perù e Camerun. Prestazioni grigie, con il rischio di essere eliminati. In seguito due ottimi giornalisti, Roberto Chiodi e Oliviero Beha, sostennero che la partita decisiva col Camerun fu comprata. Non penso che fosse vero, ma Beha – un amico – è scomparso da poco e non desidero riaprire quella pagina oscura. Penso che qualche manovra ci fu, presso i calciatori e dirigenti africani, ma i nostri dirigenti e certamente i nostri calciatori non ne erano al corrente. Se tentativo di corruzione ci fu, l’autore fu uno di quei trafficanti che da sempre ammorbano il calcio, sperando di ricavarne qualche beneficio. Comunque fosse, grazie al pareggio l’Italia -per il vantaggio di un misero gol – si qualificò e il Camerun ripartì imbattuto risultato formidabile! – dalla Spagna. Finalmente, dal giorno seguente, esplode la gloria. Incontriamo le favorite, Argentina e Brasile, e le facciamo fuori. Brera «consigliò» a Bearzot di utilizzare l’elegante Fulvio Collovati per marcare il temutissimo Diego Maradona, il nostro cittì se ne infischiò e incaricò Claudio Gentile. Mossa decisiva, fondamentale, vincente. Poi, con il Brasile, altra fantastica vittoria, 3-2. Alla squadra carioca sarebbe bastato un pareggio per qualificarsi, mai suoi eccezionali campioni (da Zico a Falcao, da Cerezo a Socrates) volevano vincere, ma furono infilzati tre volte da Paolo Rossi. Decisive la marcatura – ancora! – di Gentile su Zico e la fiducia che Bearzot accordò a Pablito, criticatissimo fino a quel giorno. Per di più, Rossi era finito nella graticola di un pasticcio di scommesse, e anche sanzionato, ma il Vecio sostenne ripetutamente di credere alla sua innocenza. Dopo le storiche vittorie su argentini e brasiliani, che spasso, che imperdibile spettacolo di costume vedere legioni di furenti e sarcastici critici diventare, di colpo, da un giorno all’altro, incontenibili sostenitori della nostra Nazionale e del suo et! Il più elegante e scaltro fu Brera, che era un fuoriclasse; il primo a capire che la compattezza della Nazionale era diventata invincibile. Si affidò a una delle sue mirabolanti invenzioni – Eupalla, la dea che con la fortuna sovverte i pronostici – e tanto se la suonò e se la cantò, da spingersi ad affermare che, anche se Enzo non voleva ammetterlo, era riuscito a vincere grazie al vecchio e caro catenaccio all’italiana (in realtà giocammo splendide partite offensive). Bearzot era nato a Joanni, Ajello del Friuli, provincia di Udine, il 26 settembre 1927. Dunque, altro che Vecio, diventò campione del mondo a 55 anni. Figlio di un direttore di banca, aveva studiato fino al liceo. Una volta al telefono gli dissi «Non ti curar di lor, ma guarda e passa», con riferimento ai suoi nemici, e lui sospirò: «Forse neanche Dante avrebbe saputo descrivere l’inferno del calcio». Come calciatore si era tolto qualche soddisfazione nell’Inter, nel Catania e soprattutto nel Torino, la sua squadra del cuore. Era molto apprezzato per la generosità, il rendimento atletico. Nell’Inter divideva la stanza con Benito Lorenzi, detto Veleno. Il quale diceva: «Tecnicamente non è granché. Ma agonisticamente è il numero uno». E così Enzo arrivò perfino alla maglia azzurra: quattro presenze, una nella Nazionale A e tre in quella B (un gol all’Egitto). Di sé, come allenatore azzurri, ha detto: «Per me è stata una passione, che è diventata una professione. Poi i valori sono cambiati, sia per lo sviluppo del calcio, sia per l’arrivo di grandi sponsor. È cambiato tutto, sembra che il denaro ha spostato i pali della porta». Lo adoravo anche per questa educata ironia. E ha collezionato più «panchine» di Pozzo, 104 contro 95, un record. 51 vittorie, 28 pareggi, 25 sconfitte. Negli ultimi anni, non ha nascosto la sua contrarietà verso certi nuovi e moderni comportamenti: «Le istituzioni non contano più, in televisione tutti urlano contro tutti. Gli arbitri contro gli ex arbitri, gli allenatori contro gli allenatori. Non mi piace». Ho provato anch’io a stanarlo, invitandolo a interviste e infine a vari programmi televisivi. Niente da fare. «Preferisco restare in silenzio, a casa mia. Non rispondo a nessuno». Se n’è andato il 21 dicembre 2010, nella sua seconda casa di Milano. Dalla prima, in via Washinygton, si era trasferito (per le offese aggressive e, ripeto, inspiegabili – che aveva subito, che continuavano a esporlo a insolenze e minacce oltraggiose). Amava il vino, il jazz e poco altro. Fumava la pipa, citando spesso un grande poeta, Umberto Saba, ma non era un collezionista, gliene regalarono a decine. Credo che nella memoria di tutti, non solo degli appassionati di calcio, siano rimasti alcuni ricordi, indelebili. L’urlo di Marco lardelli dopo il suo gol. Sandro Pertini che si alza a gridare il suo entusiasmo, a fianco del re di Spagna, durante la finalissima di Madrid. La partita a scopone durante il viaggio di ritorno sull’aereo presidenziale. Da una parte Pertini e Zoff e dall’altra, vincitori, Bearzot e Causio (il presidente accusò Zoff di aver commesso errori decisivi). Ma soprattutto ci emozioniamo ancora, come quel giorno, 11 luglio 1982, se ascoltiamo la voce di Nando Martellini al fischio finale di Italia-Germania, la voce che esulta per tre volte: «Campioni del mondo, campioni del mondo,
campioni del mondo!».
Indipendente dal punto di vista intellettuale, estraneo a ogni cricca, malgrado il successo fu
curiosamente investito da implacabili critiche.
Mi disse: «Neanche Dante avrebbe saputo descrivere l’inferno del calcio». Non gli piaceva che in tv tutti urlassero contro tutti
Cesare Lanza
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