Mi assunse al «Corriere dello Sport» e m’insegnò il mestiere. Iscritto al Pci, si dimise per l’invasione sovietica dell’Ungheria. Scoprì Lilli Gruber e lanciò il «gobbo» nei tg
(di Cesare Lanza per LaVerità) Antonio Ghirelli, nella mia adolescenza, è stato per me un secondo padre. Eravamo alla fine degli anni Cinquanta e Ghirelli – napoletano – era stato designato direttore di Tuttosport, quotidiano torinese. La mia famiglia viveva a Genova e io ero in contrasto irrimediabile con mio padre. Avevo 17 anni e fino a poco tempo prima, per ogni trasgressione, papà mi frustava, com’erano abituati a fare – all’epoca- molti padri calabresi, educatori severi dei loro figli. Non andavamo d’accordo su niente. Adoravo giocare al pallone, ma dovevo farlo di nascosto: quando lui se ne accorgeva, mi squarciava i palloni con un coltellaccio da cucina. Da quando avevo 14 anni, scrivevo ambiziosi e volenterosi pezzetti che i giornali genovesi generosamente mi pubblicavano. Mio padre anche su questo mi ostacolava in ogni modo: era impiegato in banca e aveva deciso che io dovessi prendere il suo posto (così allora era a volte possibile), quando lui sarebbe andato in pensione. Ma io, piuttosto che accontentarlo, mi sarei fatto ammazzare. E finì che me ne andai di casa quando ancora non avevo compiuto 17 anni (ce ne volevano 21, allora, per diventare maggiorenni).
Mio padre detestava la politica. Quand’ero bambino, in casa entrava L’Europeo: mi affascinavano le sue grandi fotografie. Uno dei miei primi turbamenti erotici fu provocato da una grande immagine di Silvana Mangano, in pantaloni corti, nel film Rìso amaro, in cui recitava come mondina. Forse anche per questo (molta politica, fotografie conturbanti), papà non acquistò più quello splendido settimanale, diretto – lo scoprii da adulto da Arrigo Benedetti, un maestro di giornalismo. E così l’unico giornale che entrava in casa nostra era Tuttosport, un quotidiano sportivo molto attento, allora come oggi, verso la Juventus, ch’era la squadra del cuore di papà.
In quegli anni adolescenziali mi divertivo a scrivere lettere, anche impertinenti e critiche, ai direttori di giornali e alle grandi firme. Nel 1956, in occasione dell’invasione sovietica in Ungheria, avevo scritto una lettera indignata al Corriere Mercantile, che fu pubblicata con evidenza, e da quel giorno era cominciata la mia «carriera» giornalistica. Solo quando fui più adulto, e scafato, capii che il Mercantile mi aveva dato spazio e attenzione non tanto per la mia modesta qualità, ma perché, avendo una linea di destra, aveva apprezzato che uno sbarbatello del ginnasio esprimesse ostilità e rabbia verso l’invasione dei carri armati sovietici. Comunque quel giochetto furbastro – rompere le scatole a giornalisti famosi – qualche volta funzionava. Fui molto deluso perché un mio idolo, Augusto Guerriero (scriveva su Epoca, con lo pseudonimo di Ricciardetto), neanche mi rispose. Viveva in un paese della Campania, da lì non era mai uscito, eppure era diventato il più autorevole studioso e analista di politica estera. Adorava Bach e scriveva sempre che gli restava poco da vivere. Lo veneravo. Un altro idolo era Giovanni Ansaldo, direttore del Mattino: non rispose alla mia prima lettera, ma quando gliene scrissi una seconda, stizzito, replicò con uno stile e un garbo incredibile: mi dava del voi, come si usava nel Sud, e si giustificò dicendo che era molto occupato, scriveva un articolo ogni giorno. Si giustificò! Incredibile, se ci penso oggi.
Con Antonio Ghirelli ci fu la svolta della mia vita e il vero inizio del mio lavoro, il giornalismo. Forse anche per polemica verso mio padre, gli scrissi una lettera molto pungente. Anni dopo, Antonio mi confidò: la segretaria gli aveva portato la posta, aggiungendo: «Direttore, glielo dico per scrupolo: ci sarebbe anche una strana lettera di uno studentello da Genova: molto sussiegoso, sfrontato. La cestino?». Incuriosito, Ghirelli volle leggerla e mi rispose con entusiasmo. A memoria ricordo ancora l’inizio: «Caro Lanza, sta proprio nel ricevere una lettera come la Sua l’aspetto più interessante del nostro mestiere». Ero elettrizzato a dir poco, galvanizzato. Fu l’inizio di una straordinaria corrispondenza, che durò molti anni. Sognavo di fare il giornalista e Ghirelli non era solo il direttore ammirato e agognato, ma anche l’amico anziano, un secondo padre, che mi dava consigli e opinioni, indirizzi su tutto. Dapprima mi invitò a collaborare a Tuttosport, poi mi assunse al Corriere dello Sport ed ebbi il mio primo contratto professionale.
L’affetto infinito che ho provato per Antonio finché fu in vita – morì a Roma, quasi a 90 anni, il 1° aprile 2012 – e i ricordi struggenti della nostra amicizia non mi fanno velo, per valutare la sua qualità. La grandezza di Ghirelli, ma anche purtroppo il limite, fu il suo talento dispersivo, assolutamente eclettico. Antonio era un uomo molto curioso, di intelligenza acuta e istintiva, di ironia raffinata. Una delle sue frasi preferite era: «Sono sempre pronto a prendere il primo treno per Yuma». O anche: «Lunga è la strada per Tipperary». Troppi interessi, troppe vocazioni, troppa attitudine per tutti, con l’abitudine rara di riuscire a primeggiare nelle attività più diverse.
La sua lunga vita è una miniera di avventure, di successi e di emozioni. Era nato a Napoli il 10 maggio 1922, alla fine della guerra mondiale aveva combattuto come partigiano e diretto Radio Bologna Libera. Assunse il giovane Enzo Biagi: insieme annunciarono la fine della guerra. Poi, dopo tante esperienze minori a Milano e Roma, trionfò nel giornalismo sportivo: quasi un gioco per lui, un divertimento. Prima a Tuttosport, poi al Corriere dello Sport. Era un grandioso titolista, ricordo le sue estrosità popolaresche: «Charly Gaul, dica lei, cosa fa sui Pirenei?», Roma, nun fa’ la stupida (arrossendo, ricordo che glielo suggerii io), «Vergogna!», a caratteri giganteschi dopo l’incredibile sconfitta con la Corea della Nazionale italiana nel campionato del mondo del 1966, in Inghilterra. Era iscritto al Partito comunista, si dimise nel 1956 dopo l’invasione sovietica in Ungheria (una romanzesca coincidenza con la mia storia). Soffriva di essere catalogato come un giornalista sportivo, all’epoca considerato una categoria di serie B. Prima delle direzioni si era affermato nello sport anche alla Gazzetta dello Sport, a Paese Sera e al Corriere della Sera. Era un fenomeno di simpatia, battute, trovate, iniziative. Popolarissimo tra il pubblico e anche – una rarità – tra i colleghi. Soffriva la «ghettizzazione» nello sport: i suoi interessi prevalenti erano politici e culturali. Ebbe la direzione del Globo e negli anni Settanta suggerii ai Rizzoli di offrirgli Il Mondo, in seguito diresse L’Avanti e il Tg 2 («Quando Bettino Craxi mi indicò per la direzione di questo telegiornale», dichiarò orgogliosamente in un’intervista ad Aldo Cazzullo, «fui io a fare un piacere a lui, non viceversa»). Scopri e lanciò Lilli Gruber – che lavorava nella Rai del Trentino Alto Adige – e inventò il «gobbo» (la possibilità di leggere le notizie scritte su fogli distanti), per facilitare il lavoro dei conduttori.
Ma non è finita qui! Nell’ultima parte della sua storia giornalistica, Ghirelli -Totò per gli amici e per i tanti che simpatizzavano per lui – fu portavoce di Sandro Pertini, presidente della Repubblica, e successivamente di Bettino Craxi, capo del governo. Con Pertini si verificò un clamoroso infortunio, che è una limpida testimonianza della grandezza d’animo di Ghirelli. Pertini con il suo seguito era in visita ufficiale a Barcellona da Juan Carlos («l’unico Borbone buono dai tempi di Carlo III», lo definì Antonio) e Sandro sollecitò il suo portavoce a partecipare a un pranzetto a Barcelloneta con alcuni compagni socialisti catalani: «Ottimo pesce e buon vino», gli disse il presidente di buon umore, «sarà una colazione fantastica». Ma intanto a Roma era scoppiato un finimondo politico: Francesco Cossiga, presidente del Consiglio, era accusato di aver informato il collega democristiano Carlo Donat-Cattin che suo figlio, Marco, filoterrorista, stava per essere arrestato. Ghirelli informa Pertini, che esplode: «È una vergogna! Cossiga deve dimettersi!». Non è la prima volta che le sparate impulsive del presidente vengono controllate ed edulcorate. Antonio chiama un funzionario e gli detta due righe caute. Quello capisce male e legge ai giornalisti al seguito la dichiarazione esplosiva del presidente. E così la piacevole colazione è turbata dal conseguente casino che esplode a Roma: il segretario della Democrazia cristiana, Flaminio Piccoli, annuncia la richiesta di impeachment, se l’episodio non sarà chiarito. Il presidente fa marcia indietro e chiede il licenziamento immediato del funzionario. Ghirelli risponde: «Non possiamo. È un padre di quattro figli. E poi la responsabilità è mia». E Pertini insorge: «E allora io licenzio lei». E così fu. Tutto questo, e molto altro, è raccontato in un libro di Ghirelli. Antonio, licenziato in tronco, tornò a Roma a sue spese, in compagnia della moglie Barbara, con un volo di linea. Inutile fu l’appello a Pertini di tutti i giornalisti, inviati al seguito della visita presidenziale: una testimonianza della stima di cui Totò godeva.
Con il suo carattere estroverso, Ghirelli ha pubblicato una trentina di libri, sui più vari argomenti, a conferma del suo temperamento inquieto, sempre a caccia di nuove esperienze: magnifica una sua storia del calcio edita da Einaudi, raccontata e collocata – con vocazione marxista -strutturalmente nella società italiana; molti libri della storia di Napoli; alcuni romanzi; altri libri politici, come quelli su Pertini e su Craxi. Con un’eleganza di linguaggio e una facilità di narrazione che lo rendono apprezzato e riconoscibile. Infine fu fondamentale il suo amore per la moglie, Barbara. Un’unione durata tutta la vita, dalla giovinezza alla morte, consolidata dalla nascita di due figli maschi. Barbara era perfino più brillante e ironica di Antonio: tutti e due odiavano la retorica e le convenzioni, la noia, le banalità, le ottusità, i pregiudizi, le cecità mentali. Quando mi sposai la prima volta, poco più che ventenne, Ghirelli mi disse: «Un filo unisce te e tua moglie. Non avere mai paura di verificare quanto sia forte o debole. Quando hai dubbi, prova a strappare il filo: se resiste il matrimonio è forte, va protetto e tutelato. Se invece il filo cede e si strappa, meglio saperlo subito che dopo». Non so quante volte Totò avrà provato a strappare il filo: certo è che il filo che lo univa a Barbara ha resistito più di 70 anni, fino alla morte.