Dopo molti anni l’economia italiana torna a crescere, ma le stime positive sul Prodotto interno lordo non devono farci illudere che siano sufficienti a far superare le tensioni che attraversano il nostro Paese
La notizia del rialzo delle stime del Pil per il 2017 ha giustamente diffuso un certo entusiasmo non solo nel governo ma anche tra i principali operatori economici. Dopo molti anni, l’economia italiana cresce finalmente a una velocità decente. Una buona notizia che non va sottovalutata, soprattutto se si tiene conto che il dato si profila stabile anche per il prossimo anno. Grazie anche alla linea di politica economica seguita negli ultimi anni, l’Italia sembra essersi finalmente rimessa in moto. Tuttavia, sarebbe un errore illudersi che il risultato raggiunto sia sufficiente. E tanto meno che esso sia di per sé in grado di attenuare, non dico risolvere, le tante tensioni sociali e politiche che attraversano il Paese.
Il problema nasce dal fatto che la relazione tra aumento del Pil e benessere sociale (in buona parte mediata dall’impatto su occupazione e lavoro) è col tempo diventata più complessa. Per almeno tre ordini di ragioni. In primo luogo, sappiamo che l’effetto occupazionale della crescita del Pil è oggi più blando. Il caso americano insegna: nonostante l’economia segni da anni un andamento positivo, il tasso di occupazione degli Usa rimane ai minimi storici (addirittura paragonabile a quello della grande depressione). I bassi tassi di disoccupazione (4%) non devono ingannare: molti americani semplicemente hanno smesso di cercare lavoro. Il problema è che l’aumento del Pil è connesso principalmente ai settori più innovativi e efficienti (spesso legati alla domanda estera). Così crescono profitti, investimenti e produttività; ma solo in misura più modesta l’occupazione. L’industria 4.0 è il futuro della produzione. Ma è difficile che da lì vengano quei posti di lavoro di cui avremmo bisogno.
In terzo luogo, la crescita non si diffonde in modo uniforme, ma tende a concentrarsi in alcune aree. In modo ancora più dirompente di quanto non accadeva in passato, la ripresa rischia così di disgregare intere comunità politiche (per quello che ci riguarda, a livello italiano ed europeo). In Italia, per esempio, i dati dicono che la distanza tra il Nord e il Sud è ben lontana dall’essersi attenuata (nonostante qualche piccolissimo segnale positivo). Emblematico è il caso della Sicilia, la cui economia continua a restare immobile e ben al di sotto dei livelli pre-crisi. Il problema è che nelle nuove condizioni (finita, cioè, la bonanza finanziaria) la divaricazione tra i territori non può più essere affrontata semplicemente con trasferimenti monetari: i 50 miliardi che dalla Lombardia prendono la via del resto del Paese sotto forma di residuo fiscale positivo diventano sempre meno sostenibili (ammesso e non concesso che siano davvero utili per le regioni beneficiarie, visti i circuiti del clientelismo e della dipendenza che ne derivano).
Ciò vuol dire che dobbiamo abituarci all’idea che l’andamento del Pil — che rimane una variabile di riferimento fondamentale — non basta più per avere una stima realistica della qualità della vita sociale e, di conseguenza, dei suoi effetti sulla dinamica elettorale. Per questo, ora che la crescita quantitativa è tornata, occorre porsi il problema di come renderla sostenibile e inclusiva. Anche se ce ne siamo dimenticati, l’economia è sempre «politica»: mai come oggi, il ricongiungimento del dato strettamente quantitativo (crescita economica misurata dal Pil) con quello qualitativo (aumento del benessere personale e sociale) è tutt’altro che scontato. L’aumento del Pil è una condizione necessaria ma non sufficiente per raggiungere una maggiore integrazione sociale e politica. Solo una rinnovata centralità del lavoro — nel quadro di uno scambio sociale che sappia trovare un punto di convergenza tra interessi diversi — può ricucire il rapporto tra economia e società, aprendo una fase nuova di crescita e sviluppo.
Mauro Magatti, Corriere della Sera