Dopo trentuno anni di successi, lascia il presidente che ha rivoluzionato il calcio. Ora non perdiamo la memoria
Ci siamo. Questa sera in forma privata ad Arcore, domani mattina in forma pubblica nell’assemblea della società, Silvio Berlusconi esce definitivamente, completamente e ufficialmente dal Milan.
Ma prima di scoprire come sarà il prossimo Milan e di seguirne le traiettorie, sui campi di calcio e negli intrecci finanziari, è il caso di non perdere la memoria del Milan che è stato. Per trentuno anni, non per un giorno o due. E per tutto questo tempo, dagli elicotteri dell’Arena il giorno del primo raduno targato Silvio Berlusconi, estate del 1986, fino alla notte di Doha, dicembre del 2016, con il 29° trofeo, sottratto alla Juve di Buffon e Dybala, gli eversori del Barcellona, il Milan ha rivoluzionato il calcio. Ha dettato legge in giro per l’Europa e nel mondo, ha collezionato Palloni d’oro uno dopo l’altro, da Van Basten a Shevchenko, ha riempito San Siro e regalato un’era indimenticabile all’esercito dei suoi tifosi, cresciuto in modo esponenziale dopo un declino tecnico (due retrocessioni in B) e dirigenziale (la gestione Farina lo portò a un passo dal fallimento).
Erano ottantamila nella notte del Camp Nou per la conquista della prima Coppa dei campioni dell’era Berlusconi. Ottantamila milanisti che cantavano la loro incontenibile gioia e sfottevano il rivale Peppino Prisco che di quei cori andò fiero per molti mesi. Da allora molti ragazzi, in giro per il mondo, sono cresciuti nel mito di Gullit e di Baresi, di Weah e di Sheva, di Nesta e di Maldini, di Ibra e Thiago Silva, gli ultimi giganti di una stirpe di campioni allevati in modo magistrale da tre allenatori che hanno scritto la storia, Sacchi, Capello e Ancelotti.
Tutto questo oro che ancora luccica nel cuore e negli occhi dei milanisti e non solo, è stato toccato da Silvio Berlusconi che ebbe, come egli stesso riferì, «la lucida follia» di promettere in un giorno afoso di luglio 1987, al castello di Pomerio, dinanzi alla platea di calciatori, tecnici e dipendenti rossoneri, di puntare a fare del Milan «la squadra più forte al mondo». Billy Costacurta, all’uscita dalla convention, reagì in milanese: «Questo è matto». È diventato tutto vero. Certo ci sono stati anche giorni bui, la notte di Marsiglia e la beffa di Istanbul, le sconfitte più brucianti, più di uno scudetto è stato perso per strada per la voglia di stupire nelle coppe e in particolare nelle sfide con il Real Madrid umiliato a San Siro e al Bernabeu.
Eppure è rimasto intatto il patrimonio di innovazione e di cambiamento che Silvio Berlusconi ha regalato al calcio italiano, a cominciare dal famoso motto «vincere e convincere» diventato una trappola infernale per qualche allenatore (l’ultimo Allegri) poco incline a inseguire lo stile invece del risultato. Persino il regolamento (abolizione dello 0-2 a tavolino dopo il famoso episodio della monetina da 100 lire di Alemao a Bergamo) è stato modificato su suo impulso, per non trascurare l’attuale formula di Champions league suggerita all’Uefa quando vigeva ancora il sorteggio cieco che poteva mettere uno contro l’altro due big al primo turno.
Questo romanzo è stato il Milan di Silvio Berlusconi, capace di far sognare il suo popolo quando era tempo di mercato e si poteva strappare Donadoni alla Juve di Boniperti. Per questo oggi, mentre si procede allo storico cambio di proprietà del club, moltissimi milanisti dovranno ripassare trentuno anni di calcio e di trionfi e sottovoce spedire un «grazie Silvio» ad Arcore.
Il Giornale