Letture simili se non identiche, uguale idea di quale (preoccupante) futuro si meritino Russia e Stati Uniti. Con l’Europa destinata a ridimensionarsi. Se non a sparire
Due aquile sembrano convergere, planando nello stesso punto per condividere il dominio dell’habitat geopolitico globale: quella di mare testabianca (emblema americano dal tempo della Rivoluzione) e quella bicipite nera (poi d’oro) dell’Impero e ora della Federazione russa. Convergenza simbolica confermata da certe sequenze simmetriche: quella di Donald Trump in ufficio per uno spot nell’agosto dell’anno scorso (con una testabianca che lo becchetta e lo spaventa); e la fantasmagoria di aquile cavalcate da Vladimir Putin a torso nudo semi-palestrato (tra cui proprio una testabianca) nei tanti photoshop che invadono il Web.
Una convergenza che – come in un 3D onirico – può poi far defluire le aquile, zoomare i due presidenti e fonderli nel bacio-amplesso del già celebre graffito di uno «street artist» lituano: icona tra arte e storia forse ispirata al «bacio» scultoreo di Brancusi e che va molto oltre quello tra Breznev e Honecker del pittore Dmitri Vrubel (tutto «interno» al socialismo reale).
Ma fino a che punto la condensazione simbolica espressa dalle aquile e dal bacio-amplesso riflette scenari concreti? Storici e geopolitici spaccano al proposito il capello in quattro su tanti snodi: se davvero un’incipiente nuova Guerra Fredda (esito dell’attrito Obama-Putin e di accordi Usa come quello coll’Iran) stia scemando sul nascere; se davvero i russi siano riusciti a cyber-condizionare le ultime elezioni; e in che chiave tutto questo sia leggibile, se in quella di un mutuo accordo tra autocrati o in quella di un Putin burattinaio che userebbe Trump ai suoi scopi.
Un modo indiretto e lievemente laterale per avvicinare una risposta (o almeno per formulare da un altro scorcio la domanda) può consistere nell’analizzare un’altra simmetria-convergenza: quella tra i due «ideologi» di Trump e Putin, Stephen K. (Steve) Bannon e Aleksandr Gel’evic Dugin, non a caso accomunati da un paragone, quello con Rasputin, che suona più filologico per il secondo (pure più somigliante a un mix Dostoevskij-Solzenycin), ma che – come vedremo – è forse più calzante per il primo. Il tutto non tanto attraverso le loro parabole – su cui si sono già scritte migliaia di pagine -, quanto attraverso i loro libri di rifermento (nel caso di Dugin anche quelli scritti), della loro attività politico-culturale e quindi della «visione» che ne promana.
I compositi tratti-chiave di quello che nel frattempo è diventato l’ex «chief strategist» della Casa Bianca sono ormai noti: la nativa Virginia (Norfolk), area storica del KKK, tra cui Bannon ha molti simpatizzanti (così come Trump, il cui padre viene arrestato per sedizioni di piazza con la setta); i genitori «working class» (il padre posatore di cavi telefonici) di origine irlandese, cattolici e “demo-kennedyani»; il cursus tra Virginia Tech, Georgetown e Harvard Business (urbanistica e sicurezza nazionale); i passaggi in Marina militare (ufficiale) e alla Goldman Sachs (investment banker, tra le mediazioni la vendita della Castle Rock a Ted Turner) prima di intraprendere la carriera di film-maker (una dozzina di documentari prodotti e girati) e di influencer col sito Breitbart News, punta della «Alt Right» e accusato di tutto (razzismo, sessismo, xenofobia e antisemitismo). L’approdo al Consiglio per la sicurezza nazionale e allo Studio ovale, quindi, è l’esito di una polivalenza non casuale e di un attento apprendistato mediatico, di cui Trump ha fiutato l’utilità strategica.
Meno noto, invece, il kit intellettuale di Bannon, o almeno non a sufficienza scandagliato. Si conoscono i suoi referenti di base (gli influencer dell’influencer, come il mitico Pat Buchanan, il blogger reazionario Curtis Yarvin e l’intellettuale conservatore Michael Anton). Mentre sul versante più interessante – la «biblioteca» – si cita quasi solo la sezione «bellica» (l’onnipresente Arte della guerra di Sun-Tzu – consultato anche dal coach Antonio Conte – o la Bhagavad Gita con la battaglia per il «dharma»), come a evocare il solito, eterno machiavellismo macchiettistico di certa politica conservatrice-reazionaria (e non solo).
In realtà, ogni testo «usato» da Bannon ha ragioni più mirate e meno generiche. Quello subito classico di Steven Emerson sul ramificarsi criptato dell’Islam radicale negli Usa (American Jihad: the Terrorists Living Among Us, uscito all’indomani dell’11/9) gli è servito come base strumentale per la sua prospettiva islamofobica (aveva anche concepito un docu-fiction dal titolo Islamic States of America); quello di David Hallberstam sul disastro del Vietnam, The Best and the Brighest (su cui ha conversato col giornalista sportivo del New York Times Mark Tracy in un’attesa d’aeroporto) è uno dei suoi vademecum su come «piccoli errori» possano incubarne di «grandi»; quello del noto filosofo e matematico libanese Nassim Taleb, Anti-fragile (sulla volatilità delle dinamiche economiche globali, specie finanziarie, con tanto di critica alle élite che le cavalcano) gli è servito per puntellare proprio un attacco all’establishment (burocrati, banchieri e il cosiddetto «partito di Davos») che andrebbe a comporre i «presunti» nemici di Trump; e la prospettiva apocalittica della migrazione-invasione immaginata nel Campo dei Santi dell’esploratore 91enne Jean Raspail («un fiume di sperma che cambia improvvisamente di letto e cola verso l’Occidente») è la fonte preferita per le sue citazioni in materia (col titolo del libro – estratto proprio dall’ Apocalisse – spesso evocato per designare situazioni-limite). Non caso – come ha ricordato Stefano Montefiori) quello di Raspail è anche il testo-cult di Marine Le Pen.
Ma non c’è dubbio che il nucleo radiale della visione di Bannon sia un testo sociologico tra l’eterodosso e l’eccentrico: The Fourth Turning: an American Prophecy (1997) di Neil Howe e William Strauss, due autori noti almeno – se non soprattutto – per aver utilizzato per primi, nel remoto 1991, il termine «millennials» a proposito della Y (o Net, o Next) Generation. Ed è di grande aiuto che sia Howe stesso (parlando anche a nome di Strauss, mancato nel 2007) a riassumere di recente in vari interventi e interviste il disegno e la chiave del testo.
La quarta «svolta» (o «curva») del titolo allude alla quarta fase della storia americana (quindi, della Storia tout court), cioè quella in corso, dopo le tre precedenti segnate dalla Rivoluzione, dalla Guerra civile e della Seconda guerra mondiale. Ogni fase, in quest’ottica, sarebbe composta di 80-100 anni a loro volta spartiti in quattro sotto-fasi, coincidenti alla grossa con quattro generazioni e paragonati da Howe al succedersi/alternarsi delle stagioni climatiche. Il primo è il periodo «d’innesco» (o dei Buoni sentimenti) successivo a crisi e/o conflitti, con istituzioni forti che trascendono un individualismo debole : vedi le tre date-spartiacque (1794, 1865, 1945) a indicare la stabilità dopo la Rivoluzione, lo sviluppo industriale dopo la Guerra di Secessione, il boom economico successivo a Yalta. Il secondo è invece quello del «Risveglio», con le istituzioni attaccate in nome di «valori più profondi»: il termine, infatti, evoca momenti di slancio mistico-esistenziale come quelli segnati dai teologi sei e settecenteschi (John Winthrop o Jonathan Edwards) o il break del Sessantotto. Il terzo periodo (lo «Sfilacciamento») è il rovescio simmetrico del primo, con istituzioni indebolite e un individualismo forte: vedi il periodo successivo al 1850 o il «disincanto cinico» degli anni 20 o degli anni 90 del ’900. E il quarto, infine, è quello della «Crisi» e del conflitto: il periodo – riassume Howe – che ricorda come «le foreste abbiano bisogno di incendi periodici, i fiumi di alluvioni, e le società anche»; il prezzo da pagare, in definitiva, per il possibile ritorno «età dell’oro».
In quest’ottica, è Howe stesso a definire l’agenda, con la «crisi» iniziata nel 2008 (il libro la profetizzava dal 2005), tesa al climax nel 2020 e allo scioglimento solo nel 2030; un’agenda in cui tutto quello che stiamo vivendo (tempeste finanziarie, flussi migratori, decadenza dell’Occidente, risposte nazionalistico-populiste, e così via) equivarrebbe alla Grande Depressione degli anni 20 (quelli della Repubblica di Weimar); e dovrebbe passare da una cruna dell’ago cruenta (la fine dell’Europa, i conflitti nel mare Cinese meridionale, in Corea del Nord e in Medio Oriente) prima di spalancare le porte di una «nuova Camelot».
Ora, il punto è che Bannon – ignorando critiche alla teoria di Howe-Strauss come quelle di Michael Lind della New American Foundation, secondo cui quelle previsioni sarebbero «vaghe quanto quelle dei biscotti della fortuna» – prende tutto questo molto seriamente in senso sia letterale che simbolico. Il che spiega ogni versante del suo slancio mistico-profetico (o meglio mistico-messianico): l’urgenza di stringere l’America in una morsa di rigore purificatore (sotto lo slogan: «Più autorità pubblica, meno interessi privati»); il culto della dimensione dark in quanto doloroso e necessario antefatto di un’Aurora da conquistare; e l’effigie di «The Donald» come nuova incarnazione- dopo quelle di Lincoln e FDR – del Gray Champion (il «Paladino Canuto») del racconto di Hawthorne, il puritano del New England che ritorna periodicamente a guidare la Nazione.
Il numero 4 (o meglio l’ordinale «quarto») torna in Aleksandr Dugin se al «Fourth Turning» di Howe-Strauss e di Bannon risponde con un libro in proprio come The Fourth Political Theory (2009). Qui, Dugin teorizza infatti la necessità di procedere oltre le tre forme classiche di una dottrina politica da lui stesso molto semplificata (democrazia liberale, marxismo e fascismo) per riciclarne al limite qualche «detrito» in una prospettiva inedita. Il passaggio decisivo è che mentre marxismo e fascismo sono state liquidate dalla Storia, il liberalismo agisce ancora come «pensiero unico» alienante e manipolatorio: per superarlo, è necessario ripristinare la «varietà» contro l’omologazione consumistica e tornare alla «tradizioni» in un contesto non nostalgico. In apparenza, un non certo inedito mix di anticomunismo, anticapitalismo e localismo antropologico come lo vediamo persino alle nostre latitudini, tra Lega, M5S e (filtrato l’anticomunismo) certa sinistra radicale. In realtà – basta vedere la cover dell’edizione Arktos (con aquila imperiale stilizzata, croce ortodossa e fuoco sacro) per intuire che sotto c’è ben altro.
Anche i tratti-chiave della parabola di Dugin (classe ’62, quasi dieci anni più giovane di Bannon) cominciano a essere noti (vedi ritratti magistrali come quelli di Anton Barbashin su Foreign Affairs o di Walter Laqueur in Putinism: Russia and Its Future in the West): il padre generale dell’Intelligence; i giochi «eccentrici» da adolescente (l’omaggio alle SS, più tardi definite «un’oasi intellettuale» nel Reich); la coerente militanza nell’organizzazione anti-semita Pamyat, da cui si ritirerà (o verrà escluso); la creazione di un centro e di una rivista noti come Den (poi Zavtra) e di una casa editrice (Arktogeva), oltre che di vari siti web; l’ingresso nelle istituzioni come chairman della sezione geopolitica del Cns della Duma (anche se fallirà l’elezione a parlamentare con Rodina); la fondazione di partiti come quello Nazional bolscevico (1993, con il mitico Eduard Limonov, poi immortalato da Carrère) o Eurasia (2000), poi virato in Ong; e per finire la cattedra di studi sociali a Mosca (2009), benedetta dal Cremlino ma poi persa per tensioni maturate nel periodo della «crisi» ucraina.
A un primo sguardo, il background intellettuale di Dugin è quello canonico di tanti freak intellettuali tra il destrorso e il post-ideologico, tesi a fondere statalismo economico in senso autocratico (tra bolscevismo e nazismo) col neospiritualismo antimaterialista: e quindi ecco affiorare il culto mistico della Tradizione in Julius Evola (condiviso con Bannon), l’esoterismo di René Guénon, l’anti-atlantismo di Jean-Francois Thiriart, fino al «panteismo tellurico» di un romeno misconosciuto come Jean Parvulesco (al posto del più ovvio Mircea Eliade, le cui «rinascite cicliche» vengono evocate da Howe a proposito di se stesso e di Bannon).
Ma questa – paradossalmente – è la scorza. La polpa – soprattutto in chiave Putin – è la ripresa del «sogno eurasiatico» teorizzato e perseguito da tanti Padri nobili autoctoni, tutti – con varie sfumature – accomunati da idee monarchico-autocratiche e spiritualiste (le radici bizantino-ortodosse): figure – in rigoroso ordine cronologico – come Nikolaj Danilevskij, Konstantin Leontiev e – più prossima a noi – Lev Gumilev. Quest’ultimo, in particolare – come ricorda Sergio Romano nel suo Putin – è la figura decisiva: figlio di un poeta fatto fucilare da Lenin (e molto amato da Raissa Gorbaciova) e di un’eccelsa poetessa come Anna Achmatova, è un etnologo-geografo tra i massimi teorizzatori proprio del ritorno a una Russia eurasiatica, secondo l’idea di certi esuli in tempo sovietico. È a lui che Dugin soprattutto si rifà nell’evocare una Russia-Eurasia che si espanda a est (inglobando Manciuria, Xingkiang, Tibet e Mongolia, fino all’Oceano Indiano) e a ovest (riducendo l’Ue a protettorato). Con una novità non da poco: mentre per gli eurasiatici «storici» gli USA erano un modello di riferimento, per lui diventano una nazione «chimerica» e «anti-organica», una specie di Nuova Babilonia. Al punto che in un altro dei suoi testi-chiave, l’ immaginifico pamphlet La guerra dei continenti (1991, post-crash Urss) , Dugin inscena una lotta globale tra il potere di Terra o «Eterna Roma» (fondato sul primato dello Stato rispetto all’individuo) e quello di Mare o «Eterna Cartagine» (al contrario individualista-materialista), con il secondo incarnato via via dalla democrazia ateniese, dagli imperi coloniali olandese e britannico e ora proprio dagli Usa. L’«Eterna Roma», invece, sarebbe oggi rappresentata dalla Russia post-sovietica, tornata alle radici imperiali-ortodosse. Tra le cerniere con Howe-Bannon, si nota subito quella sulla dialettica Stato-individuo.
Del resto, chi vedesse in tutto questo il clou dell’ azzardo geopolitico, verrebbe smentito dalle prospettive di uno dei sodali di Dugin, Maxim Kalashnikov (sì, proprio un omonimo dell’inventore del fucile d’assalto, impugnato dallo stesso Dugin – davanti a un tank – in una foto-cult): ammiratore equanime di Hitler e Stalin, tecnofilo accanito, anti-americano nonché critico della fiacchezza di Putin, inquadra l’imminente crollo degli Usa secondo modi condivisi con l’analista Kgb Igor Panarin: la California annessa dalla Cina, il Texas dal Messico, e così via, Siamo qui in piena «Storia alternativa», come in certi libri di Turtledove o di Philip Dick.
I punti di convergenza e simmetria tra i «sistemi» intellettuali dei due visir di Trump e Putin sono evidenti. Primo: l’ennesimo, periodico «ritorno di fiamma» (in tempo di crisi socio-economica) di una «cultura di destra» descritta in modo definitivo già cinquant’anni fa da Furio Jesi. Quel linguaggio mitico-simbolico di categorie con la maiuscola all’incrocio tra sacro e pagano (Tradizione, Radici, Razza, Patria, Sacrificio, Mistero; su tutto la necessità e l’estetica della Guerra), qui incorniciato da teorie pseudo-scientifiche dal comune taglio apocalittico-palingenetico, con echi remoti e devianti (soprattutto in Bannon) dei corsi e ricorsi di Vico e dell’Eterno Ritorno di Nietzsche. Echi – come ammette Howe – alla base anche della fortuna di quelle teorie.
Secondo: il mix (o insalata russa) di residui ideologici e teorici, con un cortocircuito tra estremismi autoritari (fascio-socialismo, nazi-leninismo o stalinismo) che si oppone alla«zona grigia» dell’establishment muovendosi verso una dimensione ibrida tra il post-ideologico e la rivendicazione (Dugin) di un’ideologia nuova: anche, qui, niente di inedito e/o di esclusivo (in fondo anche Grillo oscilla tra Lenin e il Mein Kampf).
Terzo: l’ambivalenza-ambiguità tra realtà e fiction e tra cultura alta e bassa, con Bannon che declina il suo «Darkness is Good» citando Dick Cheney (il machiavellico, lui si, vicepresidente di Bush II), il Dart Fener di Star Wars e Satana stesso, e Dugin che mescola disinvoltamente il Conte Dracula e classici della filosofia politica come Leo Strauss (che non c’entra col coautore di Howe). Mancherebbero giusto Sauron (il signore di Mordor) e Lord Voldemort (il nemico di Harry Potter) per rendere il contrasto manicheo ancora più appetibile ai millennials.
Quarto: convergenze specifiche e spinose come quella sul rapporto con gli ebrei, in cui l’ambivalenza-ambiguità è spinta alla schizofrenia. Se Bannon invoca la difesa dell’«Occidente-giudaico cristiano», il suo sito è stato speso accusato di antisemitismo (e così la sua prima moglie); mentre Dugin arriva a «risolvere» il problema (ma in fondo Bannon forse non sarebbe in disaccordo) distinguendo tra gli ebrei dello Stato di Israele (da proteggere) rispetto a quelli «esterni» (che «si sono meritati» la Shoah). Almeno, cade il velo ipocrita che protegge tanti filo-israeliani antisemiti. L’unico vero attrito, alla fine, sembrerebbe quello dovuto al gioco delle parti: al fatto che Dugin consideri gli Usa il nemico, l’«Anticristo» (con Bannon che però – come s’è visto – si sente bene nella parte). Sembrerebbe, appunto: perché Dugin, alla vittoria di Trump, ha subito virato, vedendo in «The Donald» un nuovo Putin, l’uomo in grado di trasformare l’«Eterna Cartagine» (la «Nuova Babilonia») in un interlocutore sintonico.
E qui arriviamo alla domanda risolutiva: quanto Bannon e Dugin siano effettivamente indipendenti dai loro leader (e quindi effettivamente influenti).
Bannon lo è, in ogni caso, più di Dugin. Se poco prima del voto del Congresso sull’Obamacare molti lo davano in progressiva caduta (David Brooks sul NYTimes), quel voto è – comunque la si giri – anche una sua vittoria (e una momentanea sconfitta del «politico doc», il segretario-mediatore Paul Ryan). La ventina di voti decisivi del cosiddetto «Freedom Caucus», infatti (senatori radicali) era vicina alle sue posizioni, vedendo nella correzione dell’Obamacare da un lato un «tradimento» della base popolare (avrebbe lasciato scoperti di assistenza 24 milioni di cittadini), dall’altro una riforma troppo blanda. Accusato di doppio gioco (di spalleggiare Trump e Ryan in pubblico e fomentare la fronda in privato), Bannon ha mostrato nella circostanza di non influire solo sul linguaggio e sui codici del presidente. Anche se saranno le prossime tappe (tasse in testa) a chiarire definitivamente i rapporti di forza interni ai repubblicani (l’uscita di Bannon dall’Nsc può essere un segnale opposto).
Quanto a Dugin, sia Laqueur che Romano lo inquadrano come un intellettuale lontano dall’avere un’influenza incisiva su Putin (probabilmente poco incline alle sue «fantasticherie intellettuali»): semmai, lo si è «lasciato fare» per estendere i consensi inter-generazionali, come conferma la mano morbida delle autorità sul neonazismo russo – skinheads in testa -, dove invece si è usato il pugno di ferro contro liberali, gay, donne, oligarchi non funzionali e ovviamente dissidenti come quelli repressi in questi giorni (caso-Navalny). Tant’è che Putin stesso non lo cita mai nei suoi discorsi ufficiali, preferendogli Padri nobili dell’ideologia eurasiatica come lo stesso Gumilev (vedi il concetto capitale di «pasionarnost» la capacità di andare avanti accettando il cambiamento). O come Ivan Il’in, il pensatore aristocratico (discendente diretto nientemeno che di Rjurik, fondatore della Russia «kievana») che ha utilizzato la filosofia idealistica tedesca in prospettiva slavofila per rilanciare una Russia spiritualista e anti-comunista, insieme anti-occidentale e anti-sovietica. Filo-fascista con un rapporto ambiguo col nazismo (sembra abbia collaborato con Goebbels, ma alla fine viene avversato dal Reich), Il’in ripiega in Svizzera grazie al musicista Rachmaninov, dove muore nel 1954: ma non è un caso che le sue spoglie vengano riportate al Monastero Donskoy di Mosca (ottobre 2005) grazie al regista Nikita Mikhalkov, segno di una sua definitiva riemersione post-sovietica. Qui, Putin rivela tutto il suo pragmatismo lucido e spietato: se deve scegliersi dei rifermenti alla Madre Russia, lo fa su registri storici e fondanti: come conferma anche il suo abbraccio alla Chiesa Ortodossa attraverso la frequentazione dell’Archimandrita-Vescovo Tichon (stesso nome di quello cui si confessa Stavrogin, il protagonista dei Demoni di Dostoevskij). Al riguardo, c’è un’immagine ad alto potere di sintesi: quella di Putin con l’ombra della Croce riflessa – incisa – sulla fronte illuminata, il resto del viso in un fascio d’ombra.
Tutto questo non significa, va da sé, che l’incidenza relativa di Bannon e Dugin nella pratica politica quotidiana ne annulli il significato. Anzi: utilizzate per le urne (Trump) e per la «terapia di mantenimento» del consenso, le loro «narrazioni» tessono la musica di fondo, il vero sostegno affettivo-emotivo alle politiche dei rispettivi presidenti. Il loro convergere diventa così un accompagnamento ideale (se non ideologico) al fatale realismo che connota il «patto» Trump-Putin: a partire dal sostanziale, reciproco nulla osta in politica estera (vedi le concessioni Ucraina in un senso, Corea nell’altro. Tacendo ovviamente degli attriti di queste ore sulla Siria). Essenziale è che i due piani – le narrazioni e le politiche fattuali – procedano paralleli ma senza intrecciarsi, correlati ma distinti: che il cupio dissolvi delle prime non si travasi mai, nemmeno per frammenti, nelle seconde. Altrimenti, il rischio è che il «bacio» dello «street artist» lituano – anziché restare una grottesca icona pop – si tramuti nello scultoreo «Bacio della Morte» di un cimitero di Barcellona (con ali come d’aquila); bacio che i due presidenti poserebbero, congiuntamente, su tutti noi.
Il Corriere della Sera