Non solo Satya Nadella o Sundar Pichai: sempre più manager dell’industria hi tech più all’avanguardia vengono dal Subcontinente. Merito di un certo test….
Non ci sono solo il ceo di Google Sundar Pichai e quello di Microsoft Satya Nadella. Sempre più dirigenti e fondatori di aziende nel settore del tech sono nati e cresciuti fuori dagli Usa. E tanti di loro arrivano proprio dall’India. Lo rivelava una ricerca della National Foundation for American Policy diffusa l’anno scorso: il Paese che «fornisce» più manager dell’industria dell’innovazione agli Usa è proprio l’India (seguono il Canada, la Gran Bretagna, Israele e la Germania). E lo conferma un rapporto della società di software inglese Sage sul profilo dei fondatori degli unicorni, cioè le startup valutate oltre un miliardo di dollari. Lo studio, pubblicato nelle scorse settimane, conferma molti dei cliché del self-made man all’americana: nove su dieci sono uomini, sette su dieci hanno fondato la loro startup insieme ad altre persone e sei su dieci hanno avuto l’idea vincente al primo tentativo. Solo che — ed è qui la sorpresa — tanti di loro non sono americani. Bensì indiani. Su 189 unicorni esaminati da Sage, ben dodici hanno almeno un fondatore originario del Subcontinente. Tanto che, nella classifica delle università fucine di talenti nel mondo, l’Istituto indiano di tecnologia si posiziona quarto. Certo, il podio è tutto a stelle e strisce: la medaglia d’oro va a Stanford, seguono Harvard e l’Università della California. Ma poi c’è l’India, che spezza il blocco americano; l’Istituto tecnologico del Massachusetts e l’Università della Pennsylvania arrivano solo quinta e sesta. Le altre università non americane della top ten si piazzano al settimo (Oxford) e ottavo (Tel Aviv) posto. Assente la Cina.
Dividi e guadagna
L’asso nella manica degli indiani, secondo il professor Ravi Sinha, dell’Istituto di tecnologia indiano, sede di Bombay, intervistato dal Wall Street Journal, è in primo luogo la dura selezione per accedere alle facoltà. Poi c’è il programma didattico, che punta molto sulla capacità di passare dalla teoria alla pratica e su un modo originale di risolvere i problemi complessi, dividendoli in questioni più semplici da affrontare una per volta. È ciò che sta facendo Sundar Pichai, dal 2015 ceo di Google. Se Alphabet, la holding dentro la quale «big G» è confluita, può esibire trimestrali in crescita, è anche grazie alla società che Pichai dirige e all’accelerazione da lui impressa su hardware, cloud e app (settori che nel quarto trimestre del 2016 hanno registrato entrate pari a 3,4 miliardi, realizzando un aumento del 62%). Senza contare la raccolta pubblicitaria, che continua a fare la parte del leone (22,4 miliardi, in aumento del 17,4%). Insomma, a poco più di un anno dalla nomina a ceo, Pichai non ha deluso le aspettative.
Primi della classe
Stesso discorso per Satya Nadella, l’uomo al quale è stato affidato il rilancio di Microsoft dopo Steve Ballmer. Anche lui ha puntato sul cloud, anche lui ha fatto la scelta giusta: dietro i buoni risultati dell’ultima trimestrale (con profitti aumentati del 4% e un giro d’affari salito a 24 miliardi) c’è il successo della «nuvola». E sul rinnovo di Redmond influisce anche la diversificazione dei prodotti voluta da Nadella, che a un anno dal suo arrivo ha anche esordito nel mondo dei social, comprandosi la piattaforma dedicata al lavoro LinkedIn. Se Pichai e Nadella sono le due teste di ponte della carica degli indiani top manager del tech (secondo la National Foundation for American Policy il 70% degli unicorni americani ha almeno un immigrato tra i dirigenti-chiave), tanti altri scelgono invece di fondare le loro proprie imprese. Sono in buona compagnia: i sondaggi rivelano che il 51% delle società americane valutate più di un miliardo di dollari ha almeno un immigrato tra i fondatori. Alcuni di questi hanno fatto fortuna. Come Apoorva Mehta, fondatore della piattaforma di consegna di prodotti freschi Instacart, inserito da Forbes nella classifica dei «Trenta under 30 da tener d’occhio» per la sua startup valutata 2,2 miliardi di dollari. Poi c’è Jyoti Bansal, fondatore e presidente della piattaforma per monitorare e migliorare il lavoro dei manager AppDynamics. Anche a lui Forbes ha dedicato un articolo, per segnalare il paradosso della sua storia: per fondare la sua startup, oggi valutata 1,9 miliardi di dollari, ha dovuto aspettare sette anni. Quelli impiegati per ottenere la green card, necessaria agli stranieri per risiedere negli Usa per un tempo illimitato. Il suo non è un esempio raro e il giro di vite sull’immigrazione del neopresidente Trump preoccupa anche la Silicon Valley. Mentre, per un caso del destino, è proprio il figlio di immigrati indiani, il repubblicano Ajit Pai, a dar corso a uno dei provvedimenti più temuti di The Donald: l’abolizione della net neutrality, il principio dell’uguaglianza di accesso alla rete per tutti i cittadini, stabilito sotto Obama. Il nuovo capo della Commissione federale sulle comunicazioni, il primo di origini non americane, potrebbe davvero cambiare il volto del web. Chissà cosa ne pensano i suoi colleghi (e connazionali) della Silicon Valley.
di Greta Sclaunich, il Corriere della Sera