È il nume tutelare dei tacchi a spillo, il creatore delle scarpe più belle e folli in circolazione. Dopo 45 anni di attività il designer inaugura una mostra itinerante che, attraverso le sue città del cuore, racconterà al mondo la sua arte. Si comincia da Milano, in omaggio al Made in Italy: un’ottima occasione per chiedergli di se stesso, del suo lavoro e delle sue idee. E per riflettere su cosa significhi fare moda oggi
Conoscere i propri miti può essere pericoloso: si immagina un ideale, ma s’incontra una persona normale con pregi e difetti, che magari sta avendo anche una giornata storta. Il rischio di rimanere delusi è concreto, ed è per questo che è meglio tenere sempre le aspettative basse. Questo a meno di non trovarsi faccia a faccia con il più importante creatore di scarpe contemporaneo, Manolo Blahnik. Un simbolo dello stile (termine inteso nel suo senso più alto), una mente geniale che negli ultimi 45 anni ha rivoluzionato il designe delle scarped, nonché una delle persone dalla cultura più vasta, più gentili e generose della moda: quelle con lui non sono interviste, ma piacevoli conversazioni (in inglese, francese, spagnolo o italiano, a seconda di chi ha di fronte); il fatto che parta proprio da Milano la mostra itinerante che celebra la sua carriera in 212 pezzi, “The Art of Shoes” (a Palazzo Morando fino al 9/4), fa perciò un gran piacere. L’idea, spiega lui mentre continua a osservare critico due vetrine ancora in fase di allestimento («Devo invertire tutto», dice al suo braccio destro, «non va bene») è di portare la mostra in tutte le città del suo cuore: si parte dall’Italia, dove i suoi miracoli di lacci, decori e tacchi vertiginosi vengono realizzati (erano l’oggetto del desiderio delle protagoniste di Sex and the City, la serie TV che lo ha reso una star globale), per poi andare a San Pietroburgo all’Hermitage, a Praga, la città d’origine del padre, a Madrid (in omaggio alla madre) per poi finire a Toronto e a Seul. Vestito con l’immancabile completo doppiopetto, papillon e occhialini rotondi, parte subito con i ricordi, ed è un piacevole fiume in piena.
Iniziamo dalla mostra: come è nata l’idea delle città “del cuore”?
Sembra un po’ il cammino di Santiago di Compostela, vero? In realtà, mi piaceva l’idea di portarla nelle città che amo, e quando si è aperta la possibilità di Milano l’ho presa al volo, anche se un po’ mi spaventa: Milano è una città di scarpe, in Lombardia si fanno le migliori calzature del mondo, arrivare con questa mostra qui… Ho un po’ paura che la gente le guardi e si chieda «Ma questo che vuole?». Tutto sommato alla fine sono solo scarpe.
Un po’ riduttiva, come definizione…
Il segreto sta nella passione con cui fai il tuo lavoro: io amo quello che faccio, sono rimasto una persona innamorata di questo mondo, curiosa, e con la volontà di fare belle le donne. In 45 anni non è cambiato nulla in questo senso.
A proposito di donne: come sono cambiati i loro desideri negli anni?
Negli ultimi 10 anni c’è stata un’accelerazione incredibile, credo per l’esplosione del digitale e dell’e-commerce: le tendenze nascono e muoiono molto più velocemente. Non è solo cambiata la struttura sociale, ma anche il modo di comprare e di porsi nei confronti della moda, che viene consumata freneticamente. Io però non riesco ad acquistare cose che non siano fatte bene, e in Europa siamo i migliori: e pazienza se costi e tempi sono diversi, non posso farci niente!
Molti suoi colleghi ammettono di non essere mai soddisfatti di ciò che fanno, e di voler cambiare tutto sino alll’ultimo. E lei?
Col senno di poi c’è sempre qualcosa che vorresti aver fatto diversamente. Però penso che se ho scelto un colore o un tessuto è perché in quel momento mi sembrava la scelta più giusta, e quindi rispetto il mio pensiero. E poi sa, in questo mondo c’è un battaglione di persone che giudicano la tua creatività, che criticano le tue scelte in nome della vendibilità di un prodotto: odio dirlo, ma è come se “violentassero” le idee, sono pronti a tutto in nome dei soldi. Non ho mai creduto in questo metodo. Le collezioni che faccio nascono col mio pensiero e la mia spontaneità, senza retropensieri economici e commerciali. Sono un po’ egoista forse, ma sinora sono riuscito a tenermi lontano da questa mentalità (il marchio è gestito dal designer e dalla sua famiglia, ndr), e mi pare funzioni, facendo i dovuti scongiuri. Toccate tutti legno!
I suoi genitori prevedevano per lei una carriera di diplomatico, invece ha scelto di andare a Parigi a studiare scenografia e poi è finito a Londra, a lavorare assieme allo stilista Ossie Clark. Come l’hanno presa?
Mio padre ci teneva tanto, mia madre mi ha detto solo di fare quello che volevo davvero. Mio zio lavorava al Ministero del Lavoro in Svizzera, e a 17 anni per due estati avevamo fatto uno stage da lui: lì ho capito che non faceva per me quella vita, e alla fine anche mio padre si è convinto, lasciandomi andare a Parigi. Ma prima ho dovuto comunque studiare diritto internazionale: una noia tremenda, una volta mi hanno obbligato ad assistere a un’autopsia per diritto forense, che esperienza terribile, mai più! Invece amavo il diritto romano, però poi me ne sono andato a Parigi a studiare finalmente grafica e scenografia; era il 1968, era bellissimo essere giovani a quei tempi: i cortei e le proteste in piazza, e le giornate passate alla Sorbona, le discussioni, i piani, gli ideali! Le scarpe sono arrivate a Londra, sulla scia dell’esempio di mia madre: lei ne voleva sempre di nuove, e quando ero piccolo chiamava il calzolaio della città, Don Cristiano, per studiare nuovi modelli. Gli faceva lavorare il sughero, se ne era fatta fare un paio con dei decori di legno fissati ai cardini delle porte, staccava lo chiffon vecchio delle tende e lo usava per i fiocchi, era un vulcano!
Ha spesso dichiarato che una delle persone che più l’hanno influenzata è stata Luchino Visconti. Lo ha mai conosciuto?
Certo! L’ho incontrato per due volte. La prima volta eravamo con Anna Piaggi (giornalista italiana e icona unica della moda, tra le migliori amiche di Blahnik, scomparsa nel 2012, ndr) a Londra alla prima di “Morte a Venezia”, e poi siamo andati al party post-proiezione. Non so cosa mi sia preso, ero esaltato dalla situazione, mi sono avvicinato a lui e in francese gli ho chiesto perché mai facesse solo film in costume: mi sno subito sentito un cretino per aver fatto una simile domanda, ma lui ha capito che ero in imbarazzo e, in francese perfetto, mi ha risposto gentile «giovanotto, non siamo niente senza la tradizione». Mi ha lasciato basito. Poi l’ho rivisto a Roma per il debutto di “Ludwig”: non stava già bene, è stata l’ultima volta che l’ho incontrato. Quando nel marzo del ’76 ho sentito che era morto ero a Padova a lavorare a una mia collezione, ho mollato tutto e ho preso il treno per Roma per andare al suo funerale; sono arrivato in chiesa tardi, mentre stavano già facendo le pulizie: ci sono rimasto male ma sentivo di doverci provare, per rendergli omaggio.
Lei ha sempre realizzato tutte le sue collezioni in Italia. Che rapporto ha con gli artigiani che lavorano con lei?
Sono la mia famiglia! Vengono tutti per l’anteprima della mostra. Ormai sono decenni che lavoriamo assieme, ero arrivato a loro grazie ad Anna Piaggi (si ferma, si commuove, ndr). Lei era incredibile, sa? Sapeva tutto, era curiosa, geniale, sempre un passo avanti.
È un grande appassionato del cinema italiano: chi le piace oggi?
Amo Maya Sansa, è bravissima, e anche Angela Finocchiaro ed Elio Germano: credo che attori bravi come loro siano il futuro del cinema italiano. E poi ultimamente ho studiato l’opera di Raffaello Matarazzo, e tutte le influenze che ha avuto sui registi contemporanei di tutto il mondo: è incredibile. E quanto erano belle Yvonne Sansa e Silvana Pampanini? Dimenticate da tutti, che peccato.
Per finire, cosa vorrebbe pensasse il pubblico visitando la mostra?
In realtà non mi sono nemmeno posto il problema, tanto so già che ci saranno quelli scontenti. Pazienza, non si può mica piacere a tutti.
Serena Tibaldi DRepubblica