Ettore Bernabei visto da vicino: cattolico, “ boiardo di Stato”, ultimo dei “fanfaniani”, da dg negli anni’ 60 inventò la Rai moderna
Uno così, rimasto fuori dagli strati di tangentopoli e dalla messa in stato d’accusa del personale democristiano, non poteva non passare alla cronaca patria come uomo di potere, mitico Boiardo di Stato, una specie di centrale di lottizzazione della politica, eminenza grigia, slalomista tra guerre fratricide e trabocchetti scudocrociati. Roba da stomaco forte e fortissima tenuta politica, etica e professionale. Del resto è stato braccio destro e sinistro, occhi e orecchie di Amintore Fanfani. E come Fanfani, origini e furbizia contadina, Bernabei aveva spirito pratico, piglio operativo, decisionismo, la cultura e l’intelligenza di saper anticipare le mosse. È stato l’ombra del «Rieccolo», come da definizione di Indro Montanelli, nella continua rissa delle leadership democristiane nel loro permanente andirivieni tra piazza del Gesù e Palazzo Chigi; e su Amintore ha avuto una grande influenza da segretario Dc, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, presidente del Senato, presidente dell’Assemblea dell’Onu e il primo a dare la parola nel Palazzo di Vetro ad un Papa, al loro amico e guida spirituale Paolo VI, il 4 ottobre 1965. A Bernabei non a caso si rivolse confidenzialmente anche Bettino Craxi, nella primavera del 1978 per convincere Fanfani, presidente del Senato, a compiere l’ultimo, ma del tutto inutile tentativo di strappare alla morte Aldo Moro. E i due nemici politici si incontrarono sulla Flaminia, nella sua abitazione.Splendido 93enne, quel pomeriggio del 2014
Io conobbi Bernabei a fine giugno del 2014. Mi chiamò suo figlio Andrea e mi chiese se avevo un paio d’ore libere per incontrarlo. Anche due giorni di fila, dissi. Era appena nata Italiasicura, l’unità di missione anti-dissesto idrogeologico di Palazzo Chigi e lui arrivò un tardo pomeriggio vispo come un ragazzino, splendido novantatreenne, un bel sorriso e battuta pronta da grande scuola dell’ arte dell’ ironia fiorentina. Voleva sapere «con il massimo rispetto e nessuna invadenza e solo per darvi qualche consiglio», cosa avevamo in mente di fare, capi e se c’erano progetti e soldi, quanti cantieri potevamo aprire, soprattutto se il neonato governo Renzi considerava un investimento strategico la ripresa dei lavori pubblici. Furono oltre due ore per me straordinarie, il ripasso con lucidità impressionante della storia delle infrastrutture italiane dal dopoguerra, tra le autostrade e le dighe, i sistemi di costruzione e le difese idrauliche.
Mai avrebbe immaginato, mi disse, di doversi occupare anche di edilizia, strade, ponti e bilanci aziendali. Invece se ne occupò per 17 anni, dal settembre del’ 74 quando diventò presidente di Italstat, la holding statale per la progettazione e costruzione di grandi infrastrutture e opere di ingegneria civile. La prese con 450 miliardi di lire di fatturato annuo, la lasciò nel maggio del’ 91 a quota 6.000. «E qui apro una parentesi – aggiunse – I miei bilanci sono stati sempre in utile e in ordine, mai fatto pagare una lira agli italiani. Il che significa che noi “ Boiardi di Stato” non solo non abbiano sperperato, ma abbiamo prodotto ricchezza, altro che le ingegnerie di bilancio e tutto quello che abbiamo visto altrove. Chiusa la parentesi». Ma la parentesi la lasciò aperta con l’analisi del crollo del sistema che aveva retto l’Italia per mezzo secolo, della degenerazione della lotta politica tra insulti, ruberie, tangenti, corruzione. «A Italstat – ammise – i partiti, e non solo la mia Dc con le sue correnti, avevano tanti loro faccendieri e affari da raccomandare. Ma in questi casi tutto dipende sempre dalla risposta che ricevono, e la mia la conoscevano bene. Io avevo un solo mandato: correre perché eravamo la generazione che aveva vissuto guerra e fame, e c’erano per strada ancora le macerie della guerra. Gli anni Cinquanta e Sessanta furono anni di grande modernizzazione per l’Italia, si lavorava tutti per il boom economico. Tutti! Noi democristiani di varie parrocchie, i comunisti, i socialisti, i liberali egli altri. In quindici anni di lavoro a testa bassa, portammo l’Italia tra i primi quattro Paesi più industrializzati e forti del mondo. Oggi si è afflosciata perché mancano da molti anni tre cose: un obiettivo, la speranza e l’ottimismo, e gli investimenti pubblici. Anche all’epoca ci si muoveva tra mille difficoltà. E si litigava anche di brutto tra noi e con gli alleati del centrosinistra, ma su cose serie, altro che le finte litigate di questi ultimi vent’anni contro Berlusconi…». E fu subito sfuriata contro i «governi ciechi e i politici incolti che hanno svenduto per due lire le nostre migliori aziende nazionali, i marchi più forti. Avevamo un futuro incredibile e ci siamo impoveriti economicamente e industrialmente. Che grande errore è stato! Fu quello l’inizio della fine dei lavori pubblici. Purtroppo quando la politica è senza identità, ci si fa spolpare da avventurieri e da stranieri con privatizzazioni, svendite di Stato, e così hanno ucciso quello che noi avevamo saputo costruire contro tutto e tutti». No a Berlusconi né alle finte opposizioni Bernabei proprio non nascondeva di non riuscire a sopportare la plastica di Berlusconi e nemmeno le finte opposizioni di un centrosinistra che in effetti riuscì a perdere tutto quello che poteva perdere. «La politica continuò – ha uno strumento eccezionale ed è il potere. Potere era la parola che più spesso faceva rima anche col mio nome. Ma è il potere che ti permette di migliorare il Paese, dipende però da come lo usi e noi lo abbiamo usato bene». Qualche giorno prima del nostro incontro, il 24 giugno, aveva stupito i dirigenti Rai con un intervento al loro meeting sul futuro dell’azienda organizzato da Gigi De Siervo. «Forse non erano bischerate nemmeno quelle, mi suggerirono anche di trasmetterlo a Renzi, e così feci. Renzi poi mi rispose con uno scritto di suo pugno nel quale definiva il mio appunto “lucido e lungimirante», spiegò. Ce l’aveva in tasca. E per Matteo Renzi aveva una naturale e forte simpatia. Una vita di incarichi e onori, insomma, ma alla fine la vera fedeltà di Bernabei è sempre rimasta ai valori più francescani, vita semplice e lavoro duro, forte spiritualità e fede incrollabile. Doveva sentirsi, ma sul serio, in missione per conto di Dio prima che in missione da laico per conto del suo Paese, della Dc e di Fanfani. Ha resistito fino alla fine degli anni Settanta alle suppliche dell’Opus Dei, dove entrò, ha spiegato, spinto dal sacro timore di uno sbandamento collettivo e del crollo dei valori. Aggiunse così altre messe, meditazioni, preghiere quotidiane. Nelle sue vene scorreva la cultura del cattolicesimo popolare militante, quella dei combattenti al canto Bianco Padre della Gioventù Cattolica («Siamo arditi della fede, Siamo araldi della Croce, al tuo cenno alla tua voce, un esercito a marciar…»). Beh, armamentario da campagna elettorale 18 aprile 1948, quando la sua passione politica, dopo la guerra mondiale combattuta da sergente appena maggiorenne inviato Montenegro da dove uscì vivo per miracolo, e dopo la laurea in lettere moderne nella sua Firenze, lo vedeva tra i giovani cattolici fiorentini, ma nel Dna familiare c’erano garibaldini e persino anticlericali.
1947, la strada del giornalismo
Nel 1947 aveva già imboccato la strada del giornalismo. Lo convinsero, in particolare, le insistenze di Vittore Branca, il grande filologo e critico letterario, fermandolo sulla strada della carriera a Fondiaria Assicurazioni e da assistente universitario del dantista Francesco Maggini. Branca era un capo partigiano, aveva combattuto per la liberazione di Firenze, soprattutto era il riferimento della Fuci montiniana che in quel primo dopoguerra selezionava classe dirigente cattolica «come si fa con i cavalli da corsa». Iniziò così a lavorare al Giornale del Mattino, il quotidiano fiorentino nato come organo del Cln che nello scontro politico e giornalistico (la città dalle elezioni amministrative del 1946 era governata dalla sinistra) competeva con La Nazione e il Nuovo Corriere, la voce del Pci diretto da Romano Bilenchi chiuso nel 1956 perché poco ortodosso. Fu in quegli anni che conobbe Fanfani. Glielo presentò Giorgio La Pira, giovane professore siciliano e futuro «sindaco santo» di Firenze, già deputato e sottosegretario al Ministero del Lavoro con Amintore ministro. Entrò in squadra, e nel 1951 gli chiesero di dirigere il Giornale fiorentino che diventò la tribuna di Mario Luzi, Oriana Fallaci, Paolo Cavallina, padre Ernesto Balducci (dopo il suo articolo del 13 gennaio del 1963 a favore dell’obiezione di coscienza subì un processo e la condanna per apologia di reato), don Lorenzo Milani, Giorgio La Pira, don Danilo Cubattoli, Vittorio Citterich, Gianpaolo Cresci, Gianni Pasquarelli, Giulio Torrini, Manlio Cancogni, Carlo Cassola, Sergio Lepri. Dava spazio ai suoi, ma sapeva aprire ad altri mondi “ma senza esagerare”. Se i suoi «maestri politici» sono stati La Pira e Fanfani, le sue «guide spirituali» furono il suo parroco don Raffaele Benzi, mitico insegnante nei licei fiorentini dal grande carisma, un «vescovo di base» lo definì alla sua morte nel 1985 l’allora vescovo vero Silvano Piovanelli; e monsignor Giovan Battista Montini, che sarebbe diventato Papa Paolo VI, e che incontrò la prima volta nel 1947. Montini non gli fece mai mancare il suo appoggio come guida più alta del mondo cattolico. Al futuro pontefice del resto la Dc doveva molto. Montini l’ha costruita non solo sulle teorie dell’umanesimo sociale dei francesi Maritain e Mounier, ma selezionando e formando i leader laici che l’avrebbero guidata. In quel disegno c’era Fanfani e c’era anche Bernabei che nel 1956, con l’aretino segretario nazionale, si trasferì a Roma per dirigere Il Popolo, l’organo del partito. Imparò a conoscere i meandri più nascosti del potere, mediava tra fanfaniani e le altre correnti Dc, era già in contatto permanente con la segreteria di Stato vaticana e non smise più passando negli anni dai cardinali Dell’Acqua, Benelli e Casaroli. Però, «di certe questioni», Bernabei parlava direttamente con il Papa, prima con Giovanni XIII, poi con Paolo VI, e quindi con Giovanni Paolo II.
Il timore delle spie
Il clima era quello di sfida continua, e raccontò spesso di come erano tutti preoccupatissimi di essere intercettati dagli spioni dei servizi italiani e stranieri, visto il mare di questioni nazionali e dossier di politica estera di cui si occupava. Così, con La Pira al telefono, decisero di adottavano un codice e Amintore diventò “Enea”. «Lo riprendemmo da Enea Silvio Piccolomini (illuminato Papa umanista del ‘400) spiegò a Salvatore Merlo del Foglio – Vede, Fanfani era alto un metro e cinquanta. Per non ricorrere all’allora abusato termine di “Piccoletto”, per il rispetto che si deve alle persone, pensammo di far riferimento a Piccolomini». Navigò da fanfaniano duro e puro in un mare di correnti in lotta permanente, ma collaborò con tutti i Presidenti del Consiglio dal 1960 al 1992, che non furono pochi e si davano il cambio: Fanfani, Leone, Moro, Rumor, Colombo, Andreotti, Forlani, Cossiga, Spadolini, Craxi, Goria, De Mita.
Rivoluzionò la Rai
Nel 1961 entrò in Rai via Fanfani, nominato direttore generale, e la portò fuori dall’era fascista. Il suo motto? Lo ha ricordato Myrta Merlino che era sua amica: «La Rai ha un potenziale esplosivo superiore a quello della bomba atomica. Tra i suoi compiti c’è quello di mandare la sera gli italiani a letto tranquilli, e con qualche soddisfazione». Ma anche con le prime sperimentazioni e un rinnovamento totale. Aveva 39 anni, e tutti rimasero colpiti dal suo decisionismo. A Cesare Lanza venti anni fa spiegò perché: «Era il ’60, quindici anni dopo la fine della guerra e della caduta del fascismo. Trovai lì dentro tutti i dirigenti della vecchia Eiar fascista. Un po’ strano, no? Dovunque era cambiato tutto, anche alla Fiat, la massima azienda del Paese, ma alla Rai nulla. E dunque il primo problema fu di cambiare l’organigramma di persone in età avanzata e assumere giovani qualificati per affrontare le esigenze moderne della tivù e della radio.
Per dirne una: trovai un direttore, Picone Stella, responsabile sia del Tg che del Gr. Con Enzo Biagi, di cui ero amico, concordai la sostituzione alla direzione del Tg e fu un terremoto per i servizi giornalistici abituati allo stesso direttore inamovibile dal 1938! Eravamo nel 1962! Così come per l’insostituibile direttore dei programmi». Ma doveva vedersela con la vecchia guardia che aveva già fatto fuori il suo predecessore, Filiberto Guala, e preparava l’assalto. «Ma io non rifeci l’errore di Guala – ricordò ancora – lui aveva selezionato 30mila aspiranti dirigenti, poi ridotti a 700, infine a 150, con bei nomi, come Furio Colombo, Giovanni Salvi, Emanuele Milano, Fabiano Fabiani. Però li mise come assistenti dei vecchi direttori e così i vecchi li fecero fuori, con una sorta di rivolta di palazzo. Io trovai questi giovani corsari rinchiusi nelle soffitte di via del Babuino, li ripresi e rilanciai». E inventò la Rai con Enzo Biagi, Alberto Ronchey, Pier Emilio Gennarini, Arrigo Levi, Angelo Guglielmi, Mario Motta, Umberto Eco, Pier Emilio Gennarini, Leone Piccioni, Brando Giordani, Angelo Romanò, i grandi registi da Federico Fellini a Michelangelo Antonioni, showman e autori da Renzo Arbore a Antonello Falqui, inventò Tribuna Politica e TVS ette con Sergio Zavoli. Certo, il convento di allora prevedeva eccome la parola “censura” e arrivò per Dario Fo e Franca Rame; e il perbenismo calzò con la mitica calzamaglia nera di seta lucida le gambe delle gemelle Kessler. Bernabei anni dopo la mise così su Vanity Fair: «Dovevamo far sognare senza svelare. La calzamaglia era strategica. Grazie a essa, l’italiano medio dimenticava la cellulite o le gambe storte della moglie, ma gli restava il dubbio su come fossero davvero le gambe delle Kessler. Quindi, poi, tornava sereno dalla moglie cellulitica. La famiglia era salva e le Kessler mandavano gli italiani a dormire tranquilli, gli italiani che poi dovevano votare. Le Veline invece fanno venir voglia di dargli un morso. Ma poiché poi, in realtà, non c’è nulla da mordere, la gente si arrabbia». Mitologia pura. Ma l’effetto calzamaglia, spiegano i massmediologi, fu quello del primo sogno erotico di massa degli italiani e dell’ aumento delle «voglie insane».
La terza vita a Italstat e produttore tv
Dopo il giornalismo e la cultura, la terza vita nell’impresa ad Italstat. Ma un anno dopo, a 70 anni, Bernabei si reinventò produttore televisivo e presidente della sua ultima storia di successo: la Lux Vide, la società di produzione nella quale investi i suoi risparmi e iniziò a produrre grandi narrazioni popolari vendute in tutto il mondo, dalla Bibbia ai prodotti seriali come Don Matteo un modello televisivo finora imbattibile. Proprio come il suo inventore.
di Erasmo D’Angelis, l’Unità