In 60 anni di carriera mi pento (un po’) di aver portato il trash a Sanremo
di Cesare Lanza
In 60 anni di carriera mipento (unpo’) di aver portato il trash a Sanremo Passano gli anni, ma son lunghi, e el ragazzo (che poi sarei ! io) ne ha fatta di strada. Consentitemi di citare un vecchio idolo, Adriano Celentano, con una correzione: la strada è pochina, intendendola come carriera, però lunga per variegate esperienze. Festeggio, si fa per dire, 6o di giornalismo: dico si fa per dire perché queste celebrazioni hanno, quasi sempre, un sapore necrologico. Le esperienze sono tante, ma -spero che nessuno voglia contraddirmi- in ogni dimensione ho seguito la mia vocazione delle radici: giornalista sempre, più o meno una sorta di sacerdozio laico. Non mi sono mai spretato, ma ho cambiato varie parrocchie: dapprima giornalista, ho diretto a 30 anni due importanti quotidiani, il Secolo XIX e il Corriere di informazione; poi ho scritto qualche libro; poi per qualche lustro in televisione ho firmato i programmi cosiddetti nazionalpopolari, Festival di Sanremo e 11 pomeriggi della domenica, tra Rai e Mediaset; poi qualche sberleffo teatrale. Infine un film -metà brillante e metà drammatico, secondo il mio carattere sull’ eutanasia. Ho scritto infine? La fine non è arrivata ancora: mi sono rannicchiato a scrivere altri libri e a sentenziare qualche sproloquietto sul web (Alle 5 della sera). Ma quale interesse c’è a infliggervi questo rosario? Forse è più curioso spiegarvi perché il conto fa 60, mentre i miei anni sono «appena» 74. Ne avevo 14 quando, a Genova, studiavo al ginnasio e origliavo alla porta di un palazzo attiguo, dove aveva sede un glorioso giornale del pomeriggio, II Corriere Mercantile. Era il 1956, nel novembre i carri armati sovietici invasero 1′ Ungheria: mi emozionai seguendo le cronache in televisione e scrissi una lettera a quel giornale. Che fu pubblicata come un articolo, con evidenza. E fu il mio primo bagno, illusorio, di vanità. Ci volle qualche anno prima che capissi che il Mercantile, con la sua linea di destra, aveva accolto con molta soddisfazione la lettera di un adolescente che si era indignato per la prepotenza sovietica. Ma intanto era cominciata la cosiddetta carriera: il capocronista mi aveva convocato, assegnandomi compitini, come le conferenze noiosissime dei deputati liguri 0 piccoli eventi sportivi. All’epoca non esistevano sindacati, né le barriere di oggi: si cominciava a fare giornalismo partendo dal marciapiede. In redazione gli incarichi più prestigiosi erano quelli di andare a comprare le sigarette 0 a prendere il caffè per il caporedattore, o per lo svitato di turno.
PRECOCE E ARROGANTE Un atto di sincerità potrebbe essere quello di confidarvi i miei limiti e difetti. Ho avuto la fortuna e la iattura di arrivare prestissimo alla direzione di giornali. Un giovanotto precoce. Ero arrogante, eccessivamente sicuro di me stesso e delle mie ruvide decisioni, a volte intrattabile. Stracciavo i pezzi che non mi piacevano, ero giustamente antipatico alla maggior parte dei giornalisti. Mi batto il petto e rimpiango le occasioni, sprecate, per costruire rapporti interessanti. Era stato Antonio Ghirelli, al Corriere dello sport, ainsegnarmi regole rigide sul piano tecnico: fare i titoli, tagliare sciocchezze e luoghi comuni, disegnare le pagine, chiudere in tipografia negli orari previsti per non perdere i treni. Poi ebbi un altro maestro, non di tecnica ma di strategie, stile e comportamenti. Piero Ottone, english solo nella forma, un colpo al popolo e l’altro all’elite, sempre innovando: fu lui a portare, con Franco Di Bella, il costo di una bistecca in prima pagina (orrore, per i tradizionalisti); e la firma di Pier Paolo Pasolini come commentatore (orrore per la borghesia lombarda, ostile a quel geniale, ma scomodo personaggio). Ero spregiudicato e largamente in anticipo sui tempi: al Corriere d’informazione dedicavo pagine alla Valentina di Crepax e alle interviste telefoniche con i lettori: Giulio Andreotti e Giancarlo Pajetta, piuttosto che Pippo Baudo e Giovanni Spadolini. Un certo pubblico gradiva, altri detestavano la mia linea stravagante e anarcoide. Poi fondai un settimanale, Contro, che sarebbe la gioia, oggi, dei fan di Grillo: nella prima copertina, una bella ragazza in pantaloncini prendeva a calci tutti i maggiori politici di allora, da Sandro Pertini, presidente della Repubblica e Giulio Andreotti, capo del Governo (due amici, ma me ne infischiavo), Enrico Berlinguer, Marco Pannella e tanti altri. Pannella venne a trovarmi a Milano e mi disse: «Tu non lo sai, ma sei un radicale. Ti farò deputato, ti offro un posto come nostro candidato». Rifiutai: mi sembrava una barzelletta. Se provo a fare un bilancio, sono molto scontento, ma non mi pento di nulla per una semplice ragione: non avrei saputo fare nient’ altro e, come dicevano i vecchi saggi, e anche marpioni, di questo mestieraccio, è sempre meglio fare il giornalista che andare a lavorare. Però mi sarebbe piaciuto dirigere un grande giornale: peccato che nessuno me 1′ abbia offerto. Oggi mi piacerebbe dirigere un giornale piccolo e di provincia, dove nessuno si azzardi a rompermi le balle politicamente e si accontenti delle vendite e della pubblicità. Ma anche stavolta nessuno ci pensa, forse perché sono troppo vecchio: come vedete, mi offro sul mercato, sfacciatamente. Mi sono sempre innamorato delle 100 donne che ho avuto, e allo stesso modo dei 20 o 30 giornali che mi hanno dato spazio. Perciò, adesso, letteralmente adoro La Verità.
PENTIMENTO Un mezzo pentimento c’è, legato alla televisione: hanno scritto che ero il re del trash e forse avevano buone ragioni. Il problema è che in tv se non fai ascolti, e di conseguenza la pubblicità crolla, ti fanno fuori in mezzo secondo. Sapendolo, ho puntato a formule a volte grossolane (a volte no, eh!). Ho portato Mike Tyson e la regina Rania di Giordania al Festival di Sanremo, e altri personaggi che con le canzonette non avevano niente a che fare, solo perché con certezza mi avrebbero procurato grandi ascolti. Poi, tre anni fa, mi sono stufato e ho detto basta. Mi sarebbe piaciuto lavorare con gli Angela o con la Gabanelli, o con quei pochi personaggi televisivi con cui si andrebbe volentieri anche a cena, anziché rompersi le corna in sfibranti riunioni. Non ne ho avuto l’opportunità. Il giornalismo di oggi mi disgusta, quasi sempre, perché è sciatto e codardo: in politica, tranne qui, e in pochi altri casi, non si osa. Nelle cronache non capisci una mazza: non è mai chiaro -ad esempio, per un delitto- il famoso chi, dove, come, quando, perché. Chi sia 1′ assassino e chi la vittima, dove sia successo il misfatto, quale arma sia stata usata, eccetera. Vi chiedo scusa, non ho né autorità né qualità per parlare da un pulpito, però Antonio Ghirelli, Piero Ottone, Arrigo Benedetti, Gaetano Afeltra e altri grandi direttori mi avrebbero mortificato se avessi scritto ciò che oggi leggo. Uno scoop che ricordo con piacere fu l’intervista, per II Mondo, a Indro Montanelli che sparò a zero su Piero Ottone e sulla proprietaria del Corriere della Sera Giulia Maria Crespi e annunciò la fondazione di un giornale antagonista in via Solferino. Indro fri licenziato, fondò e lanciò II Giornale e scherzosamente mi diceva che io ne ero stato la levatrice. Potrei scrivere un libro su questi meravigliosi e tormentati 60 anni di giornalismo, ma non sono abbastanza narcisista; spero di poter festeggiare i secondi 60 anni, ma alla luce delle mie numerose malattie sarà difficile perfino che festeggi il 6i°. E così apprezzerete, spero, che io stesso partecipi al mio necrologio.
di Cesare Lanza, La Verità