Il tycoon proprietario del secondo operatore tlc e editore è nel mirino del mercato
Qualcuno comincia a fare i conti in tasca a Patrick Drahi, proprietario del secondo operatore telefonico (Sfr dopo l’ex monopolista Orange-France Telecom) e di un impero editoriale e radiotelevisivo che parte dalla Francia (Libération, L’Express, Bfmtv, Rmc) e arriva fino a Israele, Portogallo e Stati Uniti (con la recentissima acquisizione della seconda tv via cavo di New York, Cablevision).
E scopre che negli ultimi due anni il debito di Altice, la holding che sta in cima a tutto (ed è quotata in Borsa) è semplicemente raddoppiato, dai 24 miliardi di euro nel 2014 ai 49,2 miliardi di oggi, vale a dire quasi sei volte l’ebitda.
Entrando nel dettaglio, Sfr ha debiti per 15 miliardi e Cablevision 13 che si aggiungono ai 7 dell’altra controllata Internet americana, Suddenlink. Poi ci sono 8 miliardi di debiti per operazioni internazionali, fuori dalla Francia, 6 miliardi in capo alla controllata lussemburghese di Altice e altri due di debiti infragruppo.
Un livello del genere è sostenibile? Interpellato dalla Commissione Bilancio del Senato, a giugno scorso, l’arrembante Drahi, reduce dall’ultima acquisizione americana (la Cablevision, anch’essa rilevata a debito), aveva dato una risposta spavalda: «Dormo sogni più tranquilli oggi che ho 50 miliardi di debiti che all’inizio della mia carriera quando mi ero fatto prestare 50 mila franchi per cominciare».
E oggi il suo fedelissimo direttore finanziario, Denis Okhuijsen, un olandese che ha studiato finanza aziendale all’Erasmus University di Rotterdam e si è fatto le ossa nella vecchia Arthur Andersen, dà la spiegazione classica di tutti gli indebitati (compresi gli Stati con un altissimo debito pubblico come l’Italia o la Grecia): abbiamo un patrimonio e un cash-flow che ci consente di sopportare anche 50 miliardi di debiti.
L’agenzia internazionale Bloomberg Intelligence è assai meno ottimista e nel suo ultimo paper ha inserito la holding Altice tra i 50 gruppi finanziari di tutto il mondo da tenere sotto controllo per tutto il 2017. Con un’avvertenza ulteriore: se il debito di Altice non dovesse invertire la curva e dovesse tornare a crescere (magari per qualche altra acquisizione fatta «a leva»), allora lo scrigno di Drahi si troverebbe davanti a «des defis inhabituels», di fronte a sfide imprevedibili (anche per il quasi sicuro rialzo dei tassi).
Per la verità, ancora prima che arrivasse quest’ultimo warning di Bloomberg, già da qualche tempo il mercato aveva dato qualche segnale a Drahi, vendendo i titoli Altice in Borsa, dimezzandone così il valore tra la fine del 2015 e i primi mesi del 2016, e costringendo il tycoon a cedere il 7,5% delle azioni (ma conservando in ogni caso il controllo con un ampio 60% del capitale) nel quadro di una complessissima operazione di rifinanziamento della sua holding personale dal nome benaugurante, Next.
E sempre l’anno scorso la potentissima Goldman Sachs aveva raccomandato in una nota indirizzata personalmente a Drahi di «stopper les acquisitions», di fermare la corsa agli acquisti. Consiglio non raccolto, come s’è visto, anche perché il tycoon franco-israeliano, in un contesto di tassi flat, bassi, ha potuto rifinanziare, all’inizio di quest’anno, quasi la metà del suo debito (21 miliardi su 49,2) allungandone la scadenza tra il 2020 e il 2022. Come dicono gli esperti, ha comprato tempo.
Oggi il costo medio del debito di Altice è del 6,2%. A partire dal 2020 Altice dovrà pagare un miliardo di euro all’anno di interessi, due miliardi a partire dal 2022. Sembrano date lontane, ma per i mercati finanziari sono già domani.
di Giuseppe Corsentino, Italia Oggi