Uno spettro si aggira per la Silicon Valley. E, ironia della sorte, tocca a un fantasmino scacciarlo. Snapchat, la startup che ha come simbolo l’ectoplasma, il social network che con il suo stile scanzonato ha conquistato milioni di ragazzi in tutto il mondo, potrebbe sbarcare in Borsa il prossimo anno. Forse già a marzo, dicono le indiscrezioni, ci lavorano pesi massimi come Morgan Stanley e Goldman Sachs. E con una valutazione stimata tra 20 e 25 miliardi di dollari. Così nell’industria tech, spaventata dal rischio di una nuova bolla, tutti gli occhi sono subito andati lì.
Snapchat è un unicorno, una di quelle società mitologiche che, un finanziamento privato dopo l’altro, hanno visto salire il proprio valore oltre il miliardo di dollari. Salvo poi arrivare alla prova del nove: il mercato pubblico lo confermerà?
Dovesse andare bene, il prossimo anno una serie di altri unicorni potrebbero seguire le sue orme verso Wall Street, a cominciare da Dropbox e Spotify. Dovesse andare male, deludendo le attese, le quotazioni rischierebbero di restare congelate per altri mesi.
Al momento è questo l’umore generale della Valley, aspettare e vedere. Un colossale post sbronza, dopo i fiumi di dollari che dalle stamperie della Fed sono arrivati nei portafogli dei fondi venture e finiti nelle casse delle startup, gonfiandone le quotazioni. “Non c’è dubbio che alcune di queste società siano sopravvalutate, e ora il mercato andrà verso una correzione”, dice Michel Wandell, partner del fondo Nexit Ventures. “La Silicon Valley è una macchina da bolle”. E nessuno vuole vedersela scoppiare in faccia.
Nel primo trimestre di quest’anno, appena undici società tech in tutto il mondo hanno deciso di affrontare il giudizio della Borsa, 16 nel secondo: siamo ai minimi dalla grande crisi. E la prudenza dei venture capital nel lanciarsi in nuovi investimenti e ingolfare ancora il proprio portafoglio di partecipazioni è nei numeri. Gli ingressi nel club degli unicorni si stanno riducendo a vista d’occhio, notano gli analisti di CB Insights. Peccato che in circolazione ce ne siano già 176, per un valore complessivo di 628 miliardi di dollari, quasi tutti senza un dollaro di utile a bilancio. A questo ritmo, tra acquisizioni e quotazioni, ci vorrebbe un doppio mandato presidenziale Usa per smaltirli. Con la possibilità che più di qualcuno fallisca per strada.
“Sapevamo che il 2016 sarebbe stato un anno difficile, tra incertezze macro e monetarie, Brexit e le elezioni americane”, ha detto a Cnbc Jackie Kelley, super esperta di Ipo per EY. “Ma molti unicorni si stanno allineando per il 2017, che dovrebbe essere un anno più stabile”. Qualche segnale si è visto in estate. Le due società tecnologiche che si sono affacciate a Wall Street, nonostante il clima poco favorevole, sono state accolte con calore. Line, social network giapponese quotato lo scorso luglio, ha visto le azioni schizzare subito al rialzo del 30%, con una valutazione vicina a dieci miliardi di dollari. Twilio, piattaforma di servizi di messaggistica per app, è arrivata al Nasdaq con un valore di 1,2 miliardi di dollari, superiore all’ultima valutazione privata.
Vero, allo stesso tempo Twitter non trova compratori, neppure a prezzi lontanissimi dai massimi storici. Ma è proprio nel confronto con il social dell’uccellino che Snap Inc, la società di Snapchat, sembra un boccone prelibato. Primo: ha mostrato di saper evolvere veloce, dalla chat per scambiarsi foto seminudi, il volto con cui quattro anni fa si è presentata al mondo, è diventata un social network a 360 gradi, dalle foto ai video, popolato da tutti i big dei media. Secondo: gli utenti crescono veloci, ormai 150 milioni attivi ogni giorno. Con un appeal enorme sui Millennials, altrimenti irraggiungibili per gli inserzionisti. Terzo, appunto, la capacità di monetizzare, costruendo attorno alla comunità un business pubblicitario redditizio. Il nuovo responsabile delle vendite Jeff Lucas, veterano ex Viacom, sta lavorando sulle metriche, dando la possibilità agli inserzionisti di lanciare (e misurare) campagne con target per età o interessi.
Secondo gli analisti di Marketer Snap potrebbe raggiungere il miliardo di dollari di ricavi nel 2017. Lontanissima da Google e Facebook, ma a un passo da Twitter. Soprattutto, con un tasso di crescita del 150 per cento, molto superiore ai rivali.
Un fuoriclasse insomma. Ma che proprio per questo non è forse lo specchio più attendibile degli umori del mercato. “Ci sono campioni che a prescindere dal contesto trovano la propria strada”, dice Alberto Onetti, che con la sua Startup Europe Partnership lavora per far crescere le aziende europee più promettenti. “A livello di sistema però continuano ad esserci poche exit, quotazioni e acquisizioni”. Per questo, al di là di Snapchat, si guarda agli altri candidati alla Borsa. “Nei nostri calcoli ci sono 531 aziende tecnologiche private che avrebbero raggiunto un grado di maturità sufficiente per quotarsi, tra cui alcuni unicorni”, dice Matthew Wong, analista senior di CB Insights. “La difficoltà a raccogliere finanziamenti dai venture, che stanno chiudendo i rubinetti, potrebbe spingerli a testare le acque. Sul mercato industriale ci sono società come AppDynamics, Okta e Actfio. Su quello consumer Blue Apron, servizio di consegna cibo a domicilio”. Ma prima ancora le chiacchieratissime Spotify e Dropbox. Entrambe Ipo ipotizzate per la seconda parte del 2017. Entrambe piene di incognite.
Il servizio di musica in streaming, fondato in Svezia nel 2006, è il più grande unicorno europeo, valutato 8,5 miliardi di dollari, con 100 milioni di utenti. In dieci anni di vita però non è ancora riuscito a chiudere un bilancio in utile. Nel 2015 il rosso è stato di 173 milioni di euro, nonostante incassi a due miliardi, soprattutto a causa degli alti costi di licenza imposti dalle major discografiche sulla propria musica.
Le trattative con Sony, Universal e soci, lunghe e difficili, sono la minaccia più grande sulla strada della quotazione. Anche se la scorsa settimana il presidente Martin Lorentzon ha ceduto la sua carica all’altro co-fondatore, e già amministratore delegato, Daniel Ek. Una concentrazione di ruoli rara in Europa, ma comune nei Paesi anglosassoni, che sembra indicare New York come Borsa d’elezione. L’acquisizione di Soundcloud poi, trattativa data per avanzata, aiuterebbe a diversificare il business.
Quanto a Dropbox, la piattaforma per archiviare file sulla nuvola, nel 2014 era stata valutata dieci miliardi di dollari. Da allora però la cifra è stata più volte messa in discussione, viste le difficoltà nel costruire un modello di business convincente. Alcuni investitori hanno perfino tagliato il valore della partecipazione. La missione degli advisor che la società avrebbe contattato, secondo le indiscrezioni, sarebbe proprio di testare il mercato, e scoprire quale valutazione riconoscerebbe. Mentre i manager, puntando sui servizi per le imprese, tentano di mettere in vetrina flussi di cassa più solidi.
Qualcosa infatti, dalla bolla di inizio anni 2000, gli investitori hanno imparato. E oltre a idee brillanti e potenziale di crescita, i grandi fondi comuni vogliono anche vedere un business che garantisca utili. O almeno un “percorso verso i profitti”, come lo definisce Wong di CB Insights. Cambio di paradigma non banale per le startup, abituate a bruciare cassa per crescere, e solo dopo capire come fare soldi. “Gli investitori premono per realizzare ritorni, ma la Borsa, così isterica, potrebbe non essere il canale migliore per valorizzare queste aziende”, ragiona Andrea di Camillo, fondatore del venture italiano P101. “Mi aspetto di vederne sempre di più cedute a fondi di lungo orizzonte o ad altri big tecnologici”. Con le loro montagne di liquidità l’esborso sarebbe un problema relativo.
Nel 2014 Whatsapp fu venduta a Facebook per 19 miliardi di dollari, valutazione che con una Ipo difficilmente avrebbe raggiunto, ma che oggi non pare più così mostruosa. Certo il vero prezzo, cedendo a un privato, è la perdita di autonomia. Il fondatore di Snapchat Evan Spiegel ha già detto di non volerlo pagare, a costo di farsi bocciare dei mercati. In fondo proprio Facebook insegna qualcosa: punita all’arrivo in Borsa, ha visto da allora il proprio valore moltiplicarsi per sei. La quotazione non è la fine, ma solo l’inizio della storia.
Filippo Santelli, la Repubblica