Le due municipalizzate sono diventate il simobolo dei mali di cui soffre la capitale. Gestioni discutibili, connivenze politiche e incapacità operative continuano a caratterizzarle: la massa debitoria sfiora i due miliardi
Se il Comune di Roma è in dissesto finanziario con una gestione speciale che porta in pancia un debito di 12 miliardi e una ordinaria che non riesce a chiudere in pareggio da anni, lo deve soprattutto alle sue due spine industriali: Ama e Atac. L’azienda dei rifiuti riceve dal Campidoglio, sotto forma di tariffa pagata dai cittadini, oltre 700 milioni l’anno, mentre l’Atac ne incassa per il contratto di servizio 440.
Una montagna di denaro indispensabile per tenere in piedi un pachiderma fragile che, se fosse per il suo core business cioè la vendita dei titoli di viaggio, non resisterebbe più di un trimestre. E infatti per tutto il 2015, a fronte di 812 milioni di ricavi, gli incassi derivanti dalla vendita dei biglietti sono stati pari a soli 260 milioni. Questo rende Ama e Atac due figli cresciuti ma cronicamente dipendenti dalla borsa della mamma e trasforma il Campidoglio in un pagatore di ultima istanza chiamato, con drammatica regolarità, a mettere mano al portafoglio.
Ama. La più grande utility italiana nel suo settore (controllata al 100% dal Comune di Roma) è ancora incapace di gestire il ciclo dei rifiuti della Capitale. Ogni giorno oltre 180 tir superano il grande raccordo anulare per raggiungere 62 impianti in dieci regioni italiane e tre paesi stranieri (Bulgaria, Romania, Portogallo). Roma produce infatti quasi 2 milioni di tonnellate di rifiuti all’anno, ma solo il 36% viene trattato e smaltito in città, rispetto alla prassi generale delle altre grandi metropoli
europee dove la stessa quota arriva al 98%. Alla base c’è una strategia industriale che è stata per anni sottoposta alle scelte della politica e che – a parte il tentativo dell’ex-amministratore delegato Daniele Fortini di rimettere in sesto le finanze aziendali – sembra oggi ripiombata all’interno di vecchie logiche. La chiusura definitiva nel 2013 della discarica di Malagrotta avrebbe dovuto liberare l’Ama dalla schiavitù industriale esercitata dal magnate laziale dei rifiuti Manlio Cerroni e dalla sua Co.la.ri. Ma l’ipotesi non si è mai avverata. Nel 2012 l’azienda di Cerroni ha realizzato un tritovagliatore per la gestione dell’indifferenziata a Rocca Cencia, e nel 2014 l’impianto ha cominciato a viaggiare con 4 milioni di euro di ricavi al mese, quasi 50 all’anno. Un incasso ricco garantito dal fatto che Ama pagava all’impianto 175 euro a tonnellata, ben al di sopra della media di mercato, e lo faceva senza gara e senza tariffa regolata dall’autorità pubblica. Il giochetto è stato bloccato alla fine del 2014 dall’allora ad Daniele Fortini e denunciato nel 2015 all’autorità giudiziaria.
Interrogato il 2 agosto scorso dalla Commissione parlamentare sulle Ecomafie, Fortini (che si è dimesso due giorni dopo per essere stato attaccato pubblicamente dal sindaco Virginia Raggi e dall’assessore Paola Muraro, indagata dalla procura di Roma per reati ambientali oltre che complice per una decade della gestione dell’azienda di cui è stata superconsulente) ha dichiarato che “gli impianti di Roma versano in condizioni di degenerazione e di degrado per la quantità di ruderi, di manufatti degradati e per il senso dell’abbandono che complessivamente c’è in queste aree. Questi impianti andrebbero abbattuti, bonificati e dopo bisognerebbe costruirci qualcosa di intelligente e moderno”. Se esiste un prezzo all’immobilismo e alle sue conseguenze, quel costo viene pagato dai cittadini: dal 2008 ad oggi la tariffa sui rifiuti a carico dei romani è aumentata del 48%. Solo tra il 2014 e il 2015 e tra il 2015 e l’anno in corso si è registrato un lieve calo, rispettivamente dell’1,5 e del 2%, una riduzione troppo contenuta per invertire in modo rilevante una tendenza ormai consolidata. È quindi la tariffa dei rifiuti (735 milioni di euro nel 2015), stabilita dal Comune di Roma e pagata dagli abitanti della Capitale, a tenere in piedi le finanze di Ama.
Atac. Se c’è un’immagine che simboleggia e mette insieme il dissesto industriale e finanziario di Atac, l’azienda del trasporto pubblico locale più grande d’Italia e una delle più grandi d’Europa, è quella di un trenino che collega ogni giorno il capolinea di via Giolitti, dietro la stazione Termini, con il quartiere periferico di Centocelle. I treni che battono la Roma-Giardinetti, linea regionale gestita da Atac, hanno un’età media di 55 anni. Troppi, così come i 17 anni degli oltre 2mila autobus che viaggiano in superficie, i 32 anni dei 164 tram che attraversano il centro di Roma e i 13,3 anni delle metropolitane. E nessuno si stupisce se per tutto il mese di settembre il 32% dei mezzi è rimasto nelle rimesse a causa dei guasti, costringendo la Capitale a un rientro infuocato dopo le vacanze. Nonostante i 25 nuovi bus consegnati proprio in questi giorni, il parco mezzi di Atac è ancora troppo vecchio e il servizio offerto ai cittadini romani scadente. La prova viene dal confronto operativo con Atm, la cugina milanese del trasporto pubblico locale. La differenza di produttività è lampante. Con oltre duemila dipendenti in più, e servendo una popolazione più che doppia, l’Atac ha incassato non più di 260 milioni di euro dalla vendita dei biglietti contro i 423 milioni di Atm; i suoi mezzi hanno cumulato 150 milioni di chilometri, contro i 169 di Atm, mentre i chilometri per dipendente sono 12mila per Atac rispetto ai 17mila della controllata milanese. Nell’azienda che paga ogni anno 536 milioni di euro per gli stipendi dei suoi 11.878 dipendenti, tutto questo ha un naturale riflesso sul risultato annuale del 2015: una perdita di 79 milioni per la società romana e un attivo di 23 per quella del capoluogo lombardo. Con un valore della produzione totale di 932 milioni, la società dei trasporti ha accumulato negli anni un debito di 1,3 miliardi di euro, di cui 325 milioni verso i fornitori, 182 milioni verso le banche e 429 milioni nei confronti del Comune di Roma. E proprio la partita dei debiti, la scorsa settimana, ha rischiato per l’ennesima volta di portare l’azienda al default. Nella giornata di ieri, 16 ottobre, era infatti prevista la scadenza per il pagamento dei debiti contratti nei confronti del pool di banche finanziatrici (Mps, Unicredit, Bnl e Intesa SanPaolo), un impegno che Atac non avrebbe potuto mai onorare. È intervenuto così il Comune approvando in Giunta in extremis l’ennesimo piano di rientro che ha dato nuovo ossigeno posticipando la data di inizio del pagamento degli oltre 400 milioni che Atac deve al Campidoglio, in modo che l’azienda possa versare il denaro disponibile alle banche. Il piano di ammortamento, elaborato dal neo assessore al Bilancio e alle Partecipate, Massimo Colomban, posticipa l’inizio dei pagamenti da Atac al Comune da luglio 2017 a gennaio 2019. Soldi risparmiati, almeno per i prossimi due anni, che permetteranno all’azienda di tenere a bada gli istituti di credito evitando così lo spettro del fallimento. Ma l’operazione di salvataggio ha aperto un nuovo e grave buco nelle casse del Campidoglio che adesso deve fare i salti mortali per chiudere il bilancio di previsione 2017 senza i soldi dovuti da Atac. Ancora una volta la mamma paga. E i figli ringraziano.
Repubblica