Pietro Salini, amministratore delegato di Salini Impregilo: «Se non investiamo in infrastrutture e istruzione non c’è futuro. Il Ponte sullo Stretto si può fare in sei anni. La corruzione non è il problema più grave, ci sono migliaia di funzionari pubblici onesti»
«Carlo è morto angosciato al pensiero dei suoi bisnipoti, al pensiero di un Paese da cui i giovani vanno via» ha detto al Corriere Franca Ciampi. Lei Pietro Salini guida il gruppo di costruzioni più grande d’Italia. Che impressione le hanno fatto queste parole?
«È vero: l’Italia di oggi è un Paese triste. Ma se ai giovani dai un’opportunità, rispondono. Noi l’anno scorso abbiamo preso 120 ingegneri e li abbiamo mandati in giro per il mondo, dall’Alaska all’Etiopia. Pensavo che sarebbe rimasto con noi solo il 30%; invece sono rimasti praticamente tutti. Le giovani donne poi si sono rivelate fortissime. Il problema è appunto la mancanza di opportunità. Ma ci sono anche gruppi come il nostro che per costruire un futuro hanno deciso di investire non solo in Italia ma anche all’estero».
È vero che su oltre 120 grandi cantieri di Salini Impregilo soltanto due sono in Italia?
«È così. Eppure questo è un Paese che il nostro gruppo ha contribuito a costruire, dall’Autosole all’Alta velocità alla Salerno-Reggio Calabria».
Bè, la Salerno-Reggio Calabria è diventata una barzelletta.
«Tutt’altro. È vero, la costruzione è durata 27 anni; ma bisogna vedere in quali condizioni. Un’opera dalle difficoltà ingegneristiche enormi, in una terra in mano alla malavita, nel disinteresse dello Stato. Eppure è un’autostrada che apre le porte della Magna Grecia, che attraversa una zona straordinaria. Poi si arriva allo Stretto, e tutto finisce. I danesi sono 5 milioni e mezzo, come i siciliani, e hanno costruito quattro grandi ponti per collegarsi alla Germania e alla Svezia. I siciliani sono ancora isolati. Anche se abitano una terra splendida, una delle più preziose al mondo per storia e cultura».
Si farà mai il Ponte?
«Noi siamo pronti. Bastano sei anni. Certo non dipende da noi».
Ma a cosa servirebbe, se in Sicilia non ci sono strade e ferrovie?
«Sa quante strade e quante ferrovie si potrebbero fare in sei anni?».
Con quali soldi?
«Le condizioni sono favorevoli e irripetibili. Tassi bassissimi. Fondi europei. E la possibilità di scorporare gli investimenti per le infrastrutture dal deficit. Il problema è che in Italia mancano una visione e una progettazione. Il Qatar ha programmato le sue infrastrutture fino al 2030, l’Australia investe miliardi di dollari. Noi mettiamo nelle infrastrutture appena il 2% della spesa pubblica. Così come mettiamo nell’istruzione dei giovani meno di un terzo che nelle pensioni degli anziani. Ma così non costruiamo il futuro».
Il problema è che in Italia non si riesce a fare una grande opera pubblica, dall’Expo al Mose, senza rubare.
«Non possiamo abolire le auto perché ci sono gli incidenti stradali. E poi la corruzione è certo grave, ma non come si pensa».
Ne è proprio sicuro?
«I ladri esistono, per carità. Meno di quanto si creda, ma esistono. Però esistono anche migliaia di funzionari pubblici che si spezzano la schiena, che si mettono in gioco di persona, che arrivano a rischiare la galera, in un sistema che a volte sembra fatto per evitare che un funzionario pubblico possa assumersi le proprie responsabilità».
Cosa intende dire?
«Che noi abbiamo un bellissimo abbecedario di regole per le gare che non impediscono la corruzione; impediscono solo le opere».
Perché?
«Perché si punta troppo sulla concorrenza al ribasso anziché sulla competenza. Tutti possono partecipare, senza distinzione tra chi è in grado e chi no. L’unica regola è il ribasso; ma così si fa una finta selezione».
Cosa bisognerebbe fare invece?
«Semplice: scegliere chi sa fare il lavoro, chi ha davvero la competenza, e verificare di continuo quel che ha speso e quel che ha fatto. Puntare sulla realizzazione, non sulle forme».
Per questo siete usciti dall’Associazione dei costruttori?
«Sì. La logica del “piccolo è bello” non è la migliore nel settore delle grandi infrastrutture complesse. Non ha senso spezzettare i cantieri in modo da far lavorare centinaia di piccole aziende, aumentando i costi di gestione e a volte dilatando i tempi».
Qualcuno le ha mai chiesto una tangente?
«Mai. Né in Italia né all’estero. Sui grandi cantieri i controlli sono molto ferrei. Noi siamo solo su cantieri grandissimi».
La ripresa ancora non si vede. Perché?
«Perché mancano gli investimenti pubblici e quelli privati. Gli italiani non hanno fiducia nel futuro. Non consumano e non investono. Il 98% degli investimenti nella Borsa di Milano viene dall’estero. Ora poi è tutto fermo in attesa del referendum, i cui risultati potrebbero di nuovo destabilizzare questo Paese e spingere di conseguenza i grandi gruppi stranieri ad abbandonare l’Italia».
Questo è l’argomento dell’ambasciatore americano. Ma la sovranità appartiene agli italiani. O no?
«Certo. Ma gli italiani devono essere informati sulle conseguenze che avrebbe la vittoria del No. Non mi pare che ci sia molta informazione al riguardo per l’opinione pubblica».
Se cadesse il governo se ne farebbe un altro, non crede?
«E quale sarebbe l’alternativa? Oggi francamente non se ne vede una all’orizzonte. Ci sono i Cinque Stelle, che però credo debbano crescere ancora prima di pensare di poter ambire a governare questo Paese».
Lei sta parlando di un movimento che alle ultime Politiche ha raccolto il 25% dei voti, e nei sondaggi è anche più su.
«Ma non si può dire no a tutto. No al Ponte sullo Stretto, no alla tav. No al valico che porterebbe in 40 minuti di treno da Genova a Milano, decongestionando il porto e la città. No alle Olimpiadi, che rappresentano una grande occasione per Roma. Sento parlare di reddito di cittadinanza. Ma senza crescita, chi lo paga?».
Una forma di sostegno a chi non ha lavoro esiste in molti Paesi d’Europa.
«Su 60 milioni di italiani, la metà non paga un euro di tasse. Altri 15 milioni pagano meno di quello che lo Stato spende per loro. In realtà, il Paese campa sulle spalle di 15 milioni di italiani. Che meriterebbero, se non un grazie, un po’ di rispetto».
Anche il vostro gruppo se ne vorrebbe andare?
«Al contrario: noi portiamo il tricolore in giro per il mondo, facciamo vedere come l’eccellenza del made in Italy sia anche nella costruzione di grandi infrastrutture complesse. Ora anche sul nuovo canale di Panama. Se continuiamo a restare in Italia, pagando le tasse che impone lo Stato, è perché siamo legati al nostro Paese. In questi giorni festeggiamo i nostri 110 anni: non una storia di famiglia, ma di persone di tante generazioni diverse che hanno lasciato un segno di sé, lavorando a opere di cui la grande maggioranza degli italiani ha usufruito. Ma proprio perché amo l’Italia, avverto il dovere di dire con sincerità quello che penso, di avvertire dei rischi che corriamo».
Anche lei è pessimista?
«Io sono fiero di appartenere a un popolo di costruttori, che in questi duemila anni ha eretto acquedotti e monumenti ammirati dal mondo intero e che resistono nel tempo. Oggi in questo Paese, nelle persone, a volte non vedo ambizione, non vedo pensiero e visione per il futuro. E senza pensieri puoi avere anche capacità di realizzazione, ma le grandi opere non si fanno».
Il vostro gruppo lavora in Africa. Continuerà la grande migrazione? Come la si affronta?
«Accogliendo i profughi e fermando i migranti economici, che sono la grande maggioranza. In Europa lavoro non ce n’è e prima di accogliere ondate di nuove persone bisogna creare opportunità di lavoro e di vita dignitose; tenendo conto anche di un corretto bilanciamento con le esigenze della popolazione del Paese che ospita. Sa cosa dà l’America a un immigrato? Niente: né assistenza sanitaria, né istruzione; gli fa subito fare il militare. Noi all’immigrato diamo la casa, la sanità, la scuola, il ricongiungimento familiare; e agli italiani, che attraverso i secoli hanno costruito questo Paese, cosa riusciamo a dare? Ci comportiamo come un’azienda che fa un aumento di capitale distribuendo le azioni gratis ai passanti; ma così agli azionisti storici non rimarrà nulla».
di Aldo Cazzullo, Corriere della Sera