Giampiero Mughini, La stanza dei libri. Come vivere felici senza Facebook, Instagram e followers, Bompiani 2016, pp. 157, 11,90 euro.
Leggo libri tutto il giorno da tutta la vita; e mica soltanto libri belli, ma anche libri brutti e persino orribili, perché son buoni tutti a leggere solo libri belli; ma del libro in sé (l’inchiostro, la carta, le orecchie, le note a margine, la polvere che li divora) non m’importa un pero, mentre Giampiero Mughini, bibliofilo irriducibile, del libro non può fare a meno. Io non potrei fare a meno degli eBook, dei file Pdf, degli iPad e degli iPhone sui quali leggerli. Ma la verità, naturalmente, è che si può fare benissimo a meno dei libri, e tanto più della passione divorante per i libri. Vero che un sacco di gente, oggi, fa a meno dei libri, ma dubito che sia per colpa di Facebook, di Instagram e degli altri social network, che col disamore delle giovani generazioni per la lettura non c’entrano nulla; un sacco di gente, vecchi e giovani, ha sempre fatto a meno dei libri, alti e bassi, culti e non, e continuerà a fare a meno dei loro equivalenti elettronici in futuro, e non di meno vivrà (come ha sempre vissuto) benissimo. Ho sempre diffidato un po’, da lettore accanito, per il culto della lettura accanita, specie quando viene spacciata come una virtù, quando invece è un vizio (come le sigarette, la politica e i siti porno). Che un lettore sia «meglio» d’un non lettore è cosa tutta da dimostrare; la saprà magari più lunga, ma che sia «meglio» dubito. Leggere è uno dei modi che aiutano a capire come gira il mondo; ma non è il solo, e forse nemmeno il più efficace. Ci sono fior d’ignoranti, là fuori, ai quali non c’è fior di sapiente che possa bagnare il naso. Senza contare che la cultura di Wikipedia, di Twitter e di Whatsapp, delle abbreviazioni (ci6, qlc1, nss1) da tastiera di smartphone e degli «emoticon» (sempre più simili a geroglifici) ha tutta l’aria d’essere l’alba d’una nuova cultura scritta, invisa ai nostalgici, ma ottima e abbondante per chi ne fa uso.
Guido Formigoni, Aldo Moro. Lo statista e il suo dramma, il Mulino 2016, pp. 488, 28,00 euro.
Che se ne approvassero o no le iniziative politiche, il democristianesimo sociale, le aperture azzardate al lato oscuro della guerra fredda, Aldo Moro fu uno statista di rango. Non fu solo un leader democristiano, dal linguaggio «creativo e ricamato», e sempre a messa. Fu anche un teorico della politica come nell’Italia dei D’Alema, dei Grillo e Casaleggio Associati, dei Renzi e dei Salvini, tramontata per sempre l’età dei Craxi, dei Pannella e degli Andreotti, non se ne vedono più da un pezzo. Oggi, più che come Aldo Moro, l’antico presidente Dc è ricordato come «il caso Moro», cioè esclusivamente nella parte della principale vittima del Sessantotto italiano. È ingeneroso, e non gli rende giustizia, ricordarlo come se, nella commedia nazionale, non gli spettasse altra parte che quella del cadavere nel portabagagli della Renault rossa che quel brutto giorno di marzo, trentotto anni or sono, fu parcheggiata tra Piazza del Gesù (sede della Dc nazionale) e Botteghe Oscure (all’epoca sede storica del partito comunista italiano). Guido Formigoni, in questo libro poderoso e sobrio, illustra l’intera parabola politica di Moro, stratega e capo di governo: le sue battaglie politiche, il centrosinistra, la solidarietà nazionale. Aldo Moro, qualunque cosa ne raccontino i complottisti immaginifici, è un protagonista della storia italiana e non una nota a fondo pagina della storia delle Brigate rosse.
Italia Oggi