ELKANN E MARCHIONNE HANNO CONVINTO S&P CHE SARÀ SALVAGUARDATA L’AUTONOMIA DEL NUOVO ACQUISTO PARTNER RE E CHE LA SUA LIQUIDITÀ NON SARÀ UTILIZZATA PER FINANZIARE ALTRI SETTORI. SEMPRE PIÙ AMERICA IN PORTAFOGLIO
La parola d’ordine è autonomia. «Il modello delle partecipazioni che lavorano in sinergia tra loro è un errore: quella che all’apparenza è un’opportunità diventa quasi sempre una gabbia». Dicono così a Exor spiegando il modello di business che hanno in mente per i prossimi anni. Filosofia che fino ad oggi parrebbe vincente. La holding degli Agnelli si è piazzata al 19esimo posto nella classifica di Fortune sulle 500 società più grandi del mondo. Una posizione che conferma quella del 2015. E che sopravanza di molto quella delle Generali, la seconda italiana in classifica al 49esimo posto. Le crisi internazionali e il mercato del petrolio puniscono Eni che scivola dal 25esimo al 65esimo posto. Naturalmente è l’ultimo anno che la holding degli Agnelli risulta in elenco tra le società italiane. Dal 1 gennaio 2017 infatti la sede sarà trasferita da Torino ad Amsterdam e la finanziara, esattamente come Fca, PartnerRe e Cnhi sarà a tutti gli effetti una società olandese con sede nella città di Rembrandt In questi anni Exor ha lavorato a sfrondare le partecipazioni. Riducendo quasi a zero quelle che non garantiscono una posizione di controllo delle società e tagliando fuori quelle di ridotte dimensioni, sotto i 300 milioni di euro. Operazione di restyling condotta con l’ulteriore preoccupazione di equilibrare la presenza su tutti i mercati mondiali. Così se sette anni fa, nel marzo del 2009, prima della nascita
di Cnhi e di Fca, quasi i due terzi delle partecipazioni della holding erano in Europa (64 per cento) mentre un quarto era in America, oggi la proporzione si è rovesciata: metà delle partecipazioni di Exor è americana e solo il 37 per cento è rimasto nella vecchia Europa. Incide su questo riequilibrio l’acquisto di Parnter Re, la società di riassicurazione Usa con sede alle Bermuda che da sola vale il 43 per cento dell’intero portafoglio. Mossa che pesa anche sul notevole incremento del valore lordo degli attivi, passato dai 5,5 miliardi di dollari del 2009 ai 15,7 di oggi. Operazione, quella di Partner Re, che a Torino garantiscono darà i suoi frutti nei prossimi esercizi con un gettito di centinaia di milioni all’anno. L’operazione di acquisto del 100 per cento di Partner Re aveva fatto storcere il naso a qualche analista. Standard and Poor’s aveva assegnato alla società di riassicurazione un outlook negativo ritenendo che le strategie di Exor avrebbero potutto condizionare il business. E’ di giovedì notte invece un nuovo report in cui S&P rivede l’outlook da negativo a stabile perché nella composizione del board e nell’assenza di obblighi di Partenr Re verso altre partecipazioni della holding gli analisti vedono una garanzia di non interferenza nel business. «Riteniamo che anche con la nuova proprietà Partner Re continuerà a mantenere una capitalizzazione estremamente forte proseguendo autonomamente nelle scelte di business». In sostanza S&P sembra aver fugato il timore che l’arrivo di Exor coincidesse con un’operazione di impoverimento della società. A Torino tengono infatti a sottolineare che sarebbe suicida strozzare la gallina dalle uova d’oro. Meglio invece gestire in modo prudente anche il monte dividendi in modo da garantire la continuità degli utili. Forse anche grazie al report di S&P giovedì scorso il primo bond di PartnerRe emesso in euro, che avrebbe dovuto essere di 500 milioni, è stato portarto a 750. In generale quella della prudenza finanziaria sembra essere la filosofia del gruppo. La scelta di ridurre dal 18 per cento al 4 per cento del portafoglio le partecipazioni non di controllo e di concentrare il business su grandi società (erano il 76 per cento nel 2009 e sono il 91 per cento oggi) sembra essere il contrario della logica mordi e fuggi che temeva nei mesi scorsi qualche analista d’oltreoceano. «Quello che manterremo sarà un profilo finanziario non spregiudicato » ripetono a Torino. Questo varrà certamente nel breve periodo. Exor deve «digerire» il peso sui conti dell’acquisto di Partner Re e potrà farlo solo gradualmente grazie a un flusso di dividendi annuale che si aggira intorno ai 300 milioni. Trascorsa questa prima fase si tratterà di tornare allo sviluppo e pensare a nuovi investimenti. Non necessariamente nel settore automotive. Da questo punto di vista l’acquisizione della società di riassicurazione delle Bermuda ha segnato un cambio epocale. Partner Re è di gran lunga la partecipazione più rilevante degli Agnelli: vale il 43 per cento mentre il peso di Fca nel portafoglio è sceso in sette anni dal 29 al 18 per cento. Questo non significa che gli Agnelli abbiano abbandonato l’idea di un consolidamento nel settore auto. Il progetto di fusione con un grande player dell’automotive ha certamente subito una battuta d’arresto anche come conseguenza indiretta dello scandalo dieselgate, ma non è stato certo accantonato. Anzi. Da un lato il rallentamento della crescita del mercato Usa, dall’altro la necessità di forti investimenti nella connettività e nel self driving sembrano riportare di attualità l’appello di Marchionne a non sprecare capitale unendo invece le società per investire meglio. Se all’epoca del discorso di Marchionne tutti immaginavano un consolidamento tradizionale tra sole aziende dell’automotive, oggi è possibile che nel discorso entrino anche i giganti della connettività e che dunque Exor possa decidere di partecipare a un gruppo mondiale leader nel self driving. Scenari, nei quali vale comunque la regola dell’autonomia delle singole partecipate. Così è certamente possibile che Samsung entri a far parte di un gruppo insieme a Fca, Marelli e un altro grande costruttore di automobili, ma quella sinergia nasce a prescindere dal fatto che Lee Jae Yong, il numero due del gruppo sudcoreano, siede come indipendente nel cda di Exor. Anche in vista delle mosse future gli Agnelli hanno deciso di trasferire ad Amsterdam la sede della holding. Il 3 settembre all’assemblea straordinaria che ha deciso il trasferimento ad Amsterdam, John Elkann ha spiegato che l’operazione si rendeva necessaria «per il carattere globale che ha assunto la società», oltre che per il fatto che ormai gran parte delle partecipazioni erano state da tempo trasferite nei Paesi Bassi. Certamente le possibilità di manovra sui mercati sono maggiori. Convincere gli investitori a entrare in un business avendo la sede ad Amsterdam è più semplice che farlo rimanendo con il quartier generale in Italia. Questo non vale tanto per l’oggi quanto per il futuro. Fino all’aquisizione di Partner Re Exor continuava ad essere una holding fortemente connotata dalle sue partecipazioni italiane. Nei prossimi anni sarà sempre meno così. E i nuovi investimenti che a Torino promettono di fare nel medio periodo non potranno che accentuare la tendenza. Il vantaggio per le attività italiane, ha sostenuto Elkann è che con un’Exor più forte a livello globale anche gli affari italiani possano crescere. John Elkann presidente e ceo di Exor e Sergio Marchionne ceo di Fca.
Repubblica