Dai primi anni ’90 a oggi distrutti 3,3 milioni di kmq, dice uno studio australiano. E ormai solo il 23% delle terre emerse del pianeta non sono manomesse dall’uomo. È emergenza: servono “corridoi” per collegare le aree protette
Le aree del mondo catalogate come wilderness – cioè sostanzialmente intatte, ancora selvagge e integre rispetto alle attività umane più invasive come l’agricoltura e gli scavi minerari – hanno subìto un declino catastrofico dai primi anni ’90 ad oggi. Questo il risultato di uno studio apparso oggi sulla rivista Current Biology, che precisa: rimangono allo stato di wilderness 30,1 milioni di chilometri quadrati, il 23.2% della superficie terrestre, la maggior parte situata nel Nord America, nel nord del continente asiatico e nel nord Africa. Si stima che ne siano andati persi 3,3 milioni di chilometri quadrati (un terzo in Amazzonia, il 14% in Africa), approssimativamente il 9,6% in venti anni.
Una perdita che mette a repentaglio gli obiettivi di conservazione fissati al 2020 dalla comunità internazionale (gli Aichi Targets) e che apre una breccia sulla efficacia e la tenuta delle aree protette nella protezione della biodiversità rimasta sul pianeta. La persistenza delle specie – la sopravvivenza sui tempi lunghi e la diversificazione in nuove popolazioni che colonizzano habitat inesplorati – dipende da dinamiche spaziali intrinseche alla natura wild che ammiriamo in tutta la sua eccezionale forza, crudeltà e storia evolutiva.
Secondo lo studio, infatti, l’82% dei territori oggi sotto protezione legale sono ancora composti da porzioni ininterrotte di habitat estese un almeno 100mila chilometri quadrati, sono cioè “blocchi di wilderness” di rilevanza globale, aree cruciali per moltissime comunità di specie minacciate e quindi “serbatoi” cruciali per il potenziale evolutivo. Ma queste stesse aree “hanno subito una sostanziale erosione negli ultimi venti anni, perdendo 2,7 milioni di chilometri quadrati di estensione”. Se confrontiamo la condizione attuale con i primi anni novanta – quanto l’eco mondiale dello Earth Summit di Rio, nel 1992, segnò un passaggio storico nella assunzione di responsabilità verso gli spazi ancora intonsi e selvaggi – ci si accorge che il 37% ha subito una contrazione quantitativa e probabilmente qualitativa. Le foreste di pianura del bacino del Congo, le foreste pluviali della Guinea, lo stesso ecosistema amazzonico non hanno più la stessa ricchezza ecologica che possedevano quando entrò in vigore la Convenzione sulla Biodiversità.
Ma perdere la natura selvaggia implica impatti sistemici che coinvolgono anche gli obiettivi di mitigazione nella cornice di riduzione delle emissioni serra stabilite nell’accordo di Parigi sul clima dello scorso dicembre. Il 32% del carbonio “intrappolato“ nella biomassa della produzione primaria (cioè i vegetali) è immagazzinata nelle regioni boreali del pianeta e il 38% nella wilderness amazzonica, africana e asiatica. Stiamo parlando non solo delle regioni di più stupefacente bellezza della Terra: qui hanno luogo i cicli idrogeologici che ci consentono di avere acqua potabile, solo per fare un esempio.
Il declino della wilderness impatta sul futuro dei mammiferi di media e grossa taglia. Il loro range geografico, avverte lo studio, coincide con quello delle aree più incontaminate del pianeta, un fattore che si somma al fatto che almeno il 12% di tutte le specie di mammiferi minacciate di estinzione vive ormai nei parchi e nelle riserve. Elefanti, grandi felini, tapiri, orsi sono sensibili alle interferenze umane e hanno bisogno di enormi estensioni di habitat: se la wilderness cede il passo alla pressione antropica, diminuiscono sensibilmente le loro possibilità di godere di territori abbastanza ampi da sostenerli sui tempi lunghi.
C’è un urgente bisogno di cambiare passo nelle politiche di conservazione della natura: mentre alla Hawaii si svolge il summit mondiale della IUCN, lo studio insiste sulla importanza di creare ulteriori, nuove aree protette sotto un ombrello giuridico diversificato che va nella direzione dei parchi transfrontalieri su scala continentale. Occorrono infatti “enormi corridoi “ per ampliare le aree protette. E la loro inclusione nei processi politici che portano alla ratifica di trattati globali: ad oggi, la Convenzione sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC), la Convenzione sulla Biodiversità (CBD) e la Convenzione sul Patrimonio Mondiale (WHC) non hanno un “testo formale che inserisca tra le nostre priorità i grandi paesaggi ancora intatti e ne riconosca i benefici “.
Insomma, a dispetto di intere biblioteche che celebrano la natura selvaggia come dimensione primigenia della nostra stessa esistenza umana la wilderness non ha ancora un passaporto nel design giuridico della conservazione. Un passo importantissimo anche per rendere più efficaci i sistemi di finanziamento del Green Climate Fund, la piattaforma di sostegno economico delle nazioni in via di sviluppo elaborato all’interno degli accordi sul clima, ammoniscono gli autori.
La Stampa