Ultime limature per le offerte vincolanti da parte dei soggetti interessati, soprattutto fondi americani, ad acquistare le “nuove” Banca Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti: alla mezzanotte odierna, mercoledì 20 luglio, scade il termine ultimo per presentare le proposte definitive di acquisto delle quattro banche sopravvissute alla risoluzione dei precedenti istituti, quella decretata nel novembre scorso e che ha notoriamente comportato il coinvolgimento di azionisti e obbligazionisti subordinati. Quanto di buono c’era in quegli istituti è stato trasferito a queste nuove entità, affidate alle cure del banchiere Roberto Nicastro con l’obiettivo di trasferirle a una nuova proprietà.
Dal punto di vista industriale, come ricostruito da Repubblica nei giorni scorsi, alcuni passi avanti sono stati fatti e si sono visti nel rosso del primo trimestre (aggregato a 49 milioni), in miglioramento dai risultati di fine 2015 e inferiore alle attese. Ma l’obiettivo primario resa la loro cessione, fondamentale perché il Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd, intervenuto massicciamente in un’operazione da 4 miliardi) rientri almeno in parte dell’esborso originario. Al tempo del salvataggio, iniettò 1,8 miliardi di liquidità per ricostruire i patrimoni, poi svalutati a 1,4 miliardi. Da spesare c’è soprattutto il prestito da 1,65 miliardi organizzato da Intesa Sanpaolo, Ubi e Unicredit della durata di 18 mesi, necessario per reperire subito le risorse essenziali per procedere con la ristrutturazione.
Proprio il prezzo di vendita delle quattro “good bank” è ora l’ago della bilancia nel processo. Gli interessati all’acquisto sono emersi nei giorni scorsi dai resoconti di stampa: rispondono ai nomi dei tre private equity americani Apax, Lone Star e Apollo, con questi ultimi (già vicini infruttuosamente alla Carige) dati in vantaggio. Da parte loro, però, la cifra massima sul piatto sarebbe intorno al mezzo miliardo: il clima intorno al sistema del credito italiano non è certo dei migliori, in questi tempi, perché i manager dei fondi siano disposti ad abbondare in generosità. Il problema è che una simile offerta al ribasso (ragionando sempre in termini di valori aggregati) obbligherebbe il Fondo a richiamare nuove risorse dagli istituti italiani, per far fronte alle esigenze del rimborso del prestito. Si tratterebbe, in sostanza, di una “minusvalenza” da oltre 1 miliardo da ripartire tra i contribuenti del Fitd.
C’è da considerare, ricorda chi segue la partita, che rimane un’altra voce di ricavo possibile: la cessione dei pacchetti di crediti non performanti raccolti nella Rev, veicolo costituito ad hoc con 8,5 miliardi di prestiti scaduti svalutati a poco più del 20% del loro valore. E’ vero che questi crediti si potrebbero rivalutare (con la rabbia degli investitori ‘azzerati’ che hanno contribuito a coprire quelle perdite) e generare un serbatoio inatteso per il Fondo, ma è altrettanto vero che la tempistica di questa cessione sarà più lunga di quella delle quattro “good bank”. Per queste, infatti, l’impegno con la Ue è di arrivare alla nuova proprietà entro la fine di settembre, mentre non ci sono scadenze per la Rev. Insomma, le banche che hanno contribuito al Fitd devono iniziare a ragionare – in tempi brevissimi – sulle offerte che avranno in mano da domani mattina. Ecco perché negli ultimi tempi è tornata in circolo l’idea che alla fine possa essere lo stesso Fitd a intervenire nuovamente acquisendo le quattro banche: sarebbe di nuovo un esborso del sistema, ma almeno a fronte dell’acquisizione degli istituti per una loro rivalutazione in fase successiva. Questa ipotesi, categorizzata come “piano B”, potrebbe diventare centrale qualora l’offerta dei fondi si rivelasse davvero al ribasso.
Repubblica