La produzione di grano in Italia è a un bivio. Sono cambiate le esigenze dell’industria del pane e della pasta, il prezzo viene definito da un mercato globale in un contesto internazionale instabile e i produttori di cereali italiani si ritrovano (da soli e senza garanzie) a fare i conti con le importazioni massicce di grano dall’estero, la mancanza di norme che regolino il mercato mondiale e limiti notevoli nella capacità di stoccaggio. Ecco la cornice che fa da contorno alla crisi del grano in Italia, diventata ormai guerra tra i produttori di frumento e l’industria.
La produzione di grano in Italia è a un bivio. Sono cambiate le esigenze dell’industria del pane e della pasta, il prezzo viene definito da un mercato globale in un contesto internazionale instabile e i produttori di cereali italiani si ritrovano (da soli e senza garanzie) a fare i conti con le importazioni massicce di grano dall’estero, la mancanza di norme che regolino il mercato mondiale e limiti notevoli nella capacità di stoccaggio. Ecco la cornice che fa da contorno alla crisi del grano in Italia, diventata ormai guerra tra i produttori di frumento e l’industria. Secondo le stime di Coldiretti i prezzi del grano duro nel 2016 sono crollati del 31% rispetto all’anno scorso con valori al di sotto dei costi di produzione. Seminare e coltivare un ettaro di grano costa poco meno di quanto non ci si guadagni. In pericolo ci sono 300mila aziende agricole e 2 milioni di ettari di terreno, soprattutto al Sud, dove in alcune aree l’unica alternativa alla coltivazione di frumento è la desertificazione. Ma esiste un rischio anche per i consumatori se per acquistare un chilogrammo di pane occorrono in valore tra i 10 e i 15 chili di grano. “Si è ulteriormente allargata la forbice tra i costi di produzione e quelli fissati per il consumatore”, dice a ilfattoquotidiano.it Paolo Abballe, dell’area economica di Coldiretti. Ed ecco i dati del paradosso: “Dal grano al pane i prezzi aumentano del 1.450% con il frumento che oggi è pagato come trenta anni fa. Dal grano duro alla pasta il prezzo cresce invece del 400 per cento”. Anche il Codacons è intervenuto con un esposto. Come uscire dalla crisi? “Sfatiamo il mito che il nostro grano non è di qualità”, spiega il responsabile dell’area Produzioni cerealicole di Confagricoltura, Mario Salvi. Che aggiunge: “Il punto è che spesso quello ad alto contenuto proteico viene mescolato con frumento più scadente dal punto di vista delle caratteristiche organolettiche”.
Agli inizi di maggio i prezzi del grano duro fino facevano riferimento al vecchio raccolto: 242,50 euro a tonnellata sul mercato di Milano, 240,50 euro a Foggia e 246,50 euro a Bologna. Le prime quotazioni relative al raccolto 2016 sono state deludenti. Poi è andata anche peggio. Il 29 giugno la commissione prezzi della Camera di commercio di Foggia, per non alimentare le tensioni tra produttori e industriali, non ha quotato il grano che veniva scambiato a 16 euro al quintale. I cerealicoltori hanno minacciano di non rendere disponibile il proprio prodotto ai marchi che vendono pasta in Italia. Il 6 luglio la quotazione è andata avanti senza la commissione, disertata in segno di protesta. Tutti in discesa i prezzi fissati (dal 10 al 15% in meno) rispetto all’ultima quotazione utile del 22 giugno. La situazione è negativa ovunque. Se un quintale di frumento duro nazionale vale 19 euro a Foggia, a Bologna resta appena sopra i 20 euro solo il grano duro fino. Emblematici i dati di Coldiretti Cagliari: 40 anni fa il prezzo del grano era più alto di quello di adesso.
LA GUERRA TRA AGRICOLTORI E INDUSTRIA – Il presidente di Confagricoltura Mario Guidi ha lanciato l’allarme sui “prezzi da discount” e sul rischio che “dal prossimo anno sia sempre meno la pasta made in Italy, fatta con grano italiano”. Poi la stoccata: “L’industria non pensi che quest’anno anche noi agricoltori faremo i saldi di stagione”. Secondo Confagricoltura il produttore non può essere l’unico soggetto della filiera a rimetterci: “Occorre distribuire le perdite, come i guadagni, tra agricoltori, stoccatori, molini e pastifici”. Eppure all’orizzonte nulla di nuovo. Italmopa (Associazione industriali mugnai d’Italia) ha stimato che la produzione nazionale 2016 di frumento duro supera le 5,5 milioni di tonnellate, il livello più elevato dell’ultimo decennio (Confagricoltura stima 5 milioni). “Il raccolto è stato comunque inferiore – ha detto il presidente Ivano Vacondio – rispetto alle esigenze quantitative dell’industria e con lacune dal punto di vista qualitativo”. E c’è da preoccuparsi se gli stessi mugnai temono “che l’attuale livello dei prezzi disincentivi la produzione in molte aree”.
LA QUESTIONE DELLE IMPORTAZIONI – I pastai affermano che è necessario importare grano a causa del basso tasso proteico di quello italiano, ma per Coldiretti le flessioni dei prezzi sono dovute “alla mancanza di norme che regolano il mercato mondiale”, leggi l’etichettatura di origine obbligatoria e la tracciabilità, “al divario dei prezzi corrisposti alla produzione rispetto al consumo e alle importazioni speculative”. L’Italia produce, infatti, 3 milioni di tonnellate di frumento tenero all’anno per la produzione di pane e biscotti, pari al 50% del fabbisogno, e oltre 4 milioni di tonnellate di grano duro per la pasta (il 60% del fabbisogno). Il resto va importato. Così nel 2015 sono stati acquistati dall’estero circa 4,8 milioni di tonnellate di frumento tenero e 2,3 milioni di tonnellate di grano duro. Nello stesso periodo, però, sono più che quadruplicati gli arrivi di grano dall’Ucraina, fino a superare i 600 milioni di chili, e raddoppiati quelli dalla Turchia per un totale di circa 50 milioni di chili. “Ogni anno alle importazioni di grano destinato all’industria se ne aggiungono altre in chiave speculativa da diversi Paesi – aggiunge Abballe – che si concentrano nel periodo a ridosso della raccolta e che influenzano i prezzi delle materie prime anche attraverso un mercato non sempre trasparente”. Da tempo Coldiretti ha puntato sul progetto della filiera corta “per promuovere le produzioni di qualità in ambito locale – spiega Paolo Abballe – potenziandone la sostenibilità produttiva e ridistribuire il valore aggiunto che c’è in termini di commercializzazione del prodotto”.
L’AMMODERNAMENTO NECESSARIO – Il ricorso alle importazioni serve a non fare salire i prezzi “ma non parlerei di speculazione”, aggiunge Salvi. Secondo cui bisogna invece concentrarsi sulle strutture logistiche di consorzi agrari, cooperative e produttori privati. In Italia si raccoglie grano di ottima qualità, ma capita che venga mescolato con frumento a basso contenuto proteico a causa delle scarse capacità di stoccaggio, mentre gli industriali lavorano con terzi che tengono il grano stoccato fino a quando non serve. “Occorre una stagione di miglioramento tecnologico delle strutture” sottolinea Salvi. I silos troppo grandi, ad esempio, non sono adatti perché se non si riempiono il prodotto può rovinarsi e così si tende a mischiare grani di qualità diversa. “Si potrebbero utilizzare i silobag – continua Salvi – sacchi a tenuta quasi ermetica che consentono sistemi temporanei di stoccaggio”.
IL SOSTEGNO – Per investire nel futuro, però, servono finanziamenti: “La strada più semplice sulla carta è quella deiPiani di sviluppo rurale a livello regionale per l’ammodernamento di strutture di commercializzazione, in particolare quelle collettive”. Ma l’iter burocratico è molto complesso, tanto che nell’ultimo lustro sono stati restituiti (perché inutilizzati) centinaia di milioni di euro. L’altra possibilità è quella di utilizzare fondi nazionali, principalmente agevolazioni sugli interessi, che vengono concessi dallo Stato attraverso il ministero dell’Agricoltura a valere sui piani nazionali di filiera, finanziati in parte a conto capitale e per il resto a tasso di interesse agevolato. La Commissione Agricoltura della Camera sta avviando intanto la discussione sulle risoluzioni per il rilancio del settore, depositate nei giorni scorsi. Tra queste quella per predisporre un piano nazionale presentata dal Movimento 5 Stelle, che sollecita i decreti attuativi della legge 91/2015 con cui il deputato grillino Giuseppe L’Abbate ha istituito le Commissioni Uniche Nazionali in sostituzione delle Borse Merci, datate 1913. Secondo Confagricoltura, però, il primo passo è mettere fine “a una campagna denigratoria che va avanti da dieci anni contro la struttura logistica italiana che si ritiene inadatta a stoccare il grano secondo qualità. E questo è un grande alibi”. Da soli i piccoli produttori privati, le cooperative e i consorzi agrari (già fortemente indebitati) possono poco “servono finanziamenti – conclude Salvi – e il sostegno di tutte le parti della filiera per migliorare la capacità di stoccaggio. Altrimenti non c’è piano che tenga”.
Il Fatto Quotidiano