Il Tribunale di Potenza ha confermato la tesi iniziale: 70 gli indagati – tra persone fisiche e giuridiche – nelle due inchieste lucane legate all’Eni e al filone “Tempa Rossa” della francese Total. Il Riesame definisce “totale sudditanza” quella dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) verso l’Eni: se da una parte, i dirigenti della società petrolifera si sarebbero accordati per non far emergere, e quindi camuffare, gli sforamenti degli inquinanti; dall’altra, ARPAB avrebbe effettuato dei controlli del tutto “approssimativi e carenti”
Il Tribunale del Riesame di Potenza ha confermato: a conclusione delle indagini preliminari, 70 gli indagati – tra persone fisiche e giuridiche – nelle due inchieste lucane legate all’Eni e al filone “Tempa Rossa” della francese Total. Lo scorso 16 aprile il Tribunale del Riesame aveva rigettato la richiesta – avanzata dal Colosso Oil – di revoca del sequestro di due vasche di stoccaggio rifiuti e del pozzo di reiniezione Costa Molina 2. “La protrazione dell’utilizzo delle vasche, dell’impianto e del pozzo” – secondo il Riesame – “costituisce aggravio alle conseguenze dannose del delitto, protraendo, attraverso l’illecito smaltimento di rifiuti, la diffusione nell’ambiente di sostanze pericolose”, confermando a chiare lettere l’accusa che era stata mossa ad Eni: “delitti d’impresa legata allo smaltimento di rifiuti e quindi reati ambientali”,come s’era espresso il Procuratore della Direzione Nazionale Antimafia, Alfredo Roberti. Intanto, il Centro Oli Val d’Agri (COVA) rimane silente, sospeso; mentre su quegli scarti di produzione petrolifera – i “reflui” reiniettati nel pozzo della discordia – sono stati alterati i codici CER (Catalogo Europeo dei Rifiuti), incuranti della pericolosità di quanto trasportato e del loro impatto sull’ambiente e sulla salute umana. Incuranti o, ancor peggio, conniventi. Il Riesame definisce “totale sudditanza” quella dell’Agenzia Regionale per la Protezione dell’Ambiente (ARPA) verso le sei zampe del Cane: se da una parte, i dirigenti della società petrolifera si sarebbero accordati per non far emergere, e quindi camuffare, gli sforamenti degli inquinanti; dall’altra, ARPAB avrebbe effettuato dei controlli del tutto “approssimativi e carenti”. E così, la Storia lucana si ripete: il controllato che coincide (spesso) con il controllore e viceversa. Cosa ben peggiore è che – sempre secondo il Riesame – i tecnici dell’Agenzia preposta al controllo ed al monitoraggio dell’ambiente e della sua qualità erano del tutto “coscienti”, consapevoli, di quanto si stessero superando i limiti previsti dalla legge. “Attività fraudolenta”.
Due enti – ARPAB ed Eni, il controllore ed il controllato – che dovrebbero mantenersi a debita distanza. Nel 2012, l’allora direttore ARPAB Raffaele Vita – pressato dal giornalista Radicale Maurizio Bolognetti, in merito alla pubblicazione dei monitoraggi dell’aria e alla loro consultazione da parte dei cittadini – si lascia sfuggire le contestazioni che Eni rivolgeva all’Agenzia di Protezione dell’Ambiente: “l’Eni ce li contesta, noi li rimettiamo a posto; l’Eni ce li ricontesta, noi li rimettiamo a posto”. Il controllore controllato. Non dimentichiamo che siamo in Basilicata, la terra (pre)scelta come hub petrolifero d’Italia e d’Europa; terra in cui oltre il 70% del territorio è interessato da permessi di ricerca e concessioni. Terra dove si estrae l’80% del petrolio italiano; dove solo il potenziale stimato – per la Val d’Agri, dove Eni SpA opera – è di oltre 900 milioni di barili. E non dimentichiamo che fino al 2006 – come già scriveva Bolognetti – “gli unici monitoraggi in Val d’Agri sono stati effettuati dall’Eni e che solo a partire dal settembre 2012, 16 anni dopo l’avvio del Cova, è entrata in funzione una rete di monitoraggio terza con centraline cedute da Eni ad Arpab, che per qualche misteriosa ragione hanno funzionato in maniera intermittente”. Così, mentre l’Amministratore Delegato Eni Descalzi, in una sua lettera pubblicata sulle testate giornalistiche lucane, teneva a sottolineare “la conformità dell’impianto alle best practice internazionali” ed alla normativa italiana, il Riesame fondava la sua accusa contro l’operato Eni e la connivenza dell’Agenzia per la Protezione dell’Ambiente. Della serie: attenti al cane e al padrone. In tutta risposta, lo scorso 20 Maggio Eni ha presentato ricorso in Cassazione in merito alla decisione del Tribunale del Riesame sul sequestro del COVA: “in sede di sequestro” – fa sapere in un comunicato stampa – “era stato indicato come possibile l’uso dell’impianto a condizione che l’acqua estratta non fosse più reiniettata nel pozzo e fosse altresì modificata la qualifica CER del fluido risultante dal processo produttivo, soluzione che, come già spiegato dalla società, non risultava praticabile dal punto di vista industriale ed era incoerente con il quadro autorizzativo vigente per l’impianto”. Così Eni sta studiando soluzioni alternative, ipotizzando “la separazione della produzione di gas da quella di olio e permettere di continuare nella reiezione delle acque di strato”; una soluzione che, però, lascia perplessi, considerata la composizione chimica delle acque utilizzate al fine di migliorare l’estrazione di greggio [“composti organici (idrocarburi e non, additivi chimici utilizzati per migliorare il processo estrattivo) ed inorganici (sali, metalli pesanti in quantità minime)”, cfr. Osservatorio Ambientale “Val d’Agri”]. Nel frattempo, Eni ha ben pensato di ripresentarsi sulla scena in veste di Top Sponsor delle squadre nazionali della FIGC (Federazione Italiana Giuoco Calcio) fino al 2018, vale a dire Campionati Europei 2016 in Francia e Mondiali 2018 in Russia. Questo perché gli uomini e le donne di Eni “hanno una passione per le sfide” ed “attribuiscono un valore fondamentale alla persona, all’ambiente e all’integrità”. Della serie: cornuto e mazziato, ma con i circenses (sine panem) pareggiamo i conti.
di Marialaura Garripoli COSMOPOLISMEDIA