L’ex segretario di Stato vince con meno di duemila voti di scarto. Il risultato mostra un partito spaccato, con un elettorato non entusiasta all’idea di avere l’ex first lady alla guida della Casa Bianca
Hillary Clinton si è autoproclamata vincitrice su Bernie Sanders in Kentucky, con meno di duemila voti a separare i due, mentre il senatore ha vinto in Oregon (con il 53,1 per cento dei consensi, contro il 46,9 della Clinton). “Abbiamo appena vinto il Kentucky!”, ha esultato la Clinton, dal suo account Twitter, appellandosi all’unità del partito: “Grazie a tutti quelli che hanno votato. Siamo sempre più forti e uniti”. Associated Press si è comunque rifiutata per ore di dichiarare il vincitore in Kentucky, dove la sfida sarebbe finita con un risultato di quasi parità: 46,8 per cento per la Clinton; 46,3 per cento per Sanders, con i delegati nello Stato divisi equamente tra i candidati. Il risultato mostra un partito spaccato, con molti militanti tutt’altro che entusiasti all’idea di avere Hillary Clinton come propria candidata alla Casa Bianca. La Clinton non entusiasma e non unisce. Le primarie democratiche, più che una una questione di numeri e di delegati, si stanno trasformando in una sorta di psicodramma che mette seriamente in discussione la leadership di Hillary Clinton.
L’assenza di una vera vittoria in Kentucky, unita alla sconfitta chiara in Oregon, rappresentano in effetti un problema non indifferente per l’ex-segretario di Stato, che in queste settimane si è lanciata in una serie di affondi contro Donald Trump, il suo probabile rivale a novembre, senza però essere riuscita a dare il colpo finale alle ambizioni di Sanders. Il senatore del Vermont, in un discorso ieri sera in California, ha anzi dimostrato tutto, fuorché l’intenzione di ritirarsi. Ha detto Sanders: “In Kentucky, dove la Clinton ha battuto Barack Obama per 250 mila voti nel 2008, siamo praticamente al pareggio”. Il senatore ha poi criticato il sistema di voto scelto dalla leadership democratica in Kentucky e in Oregon, con l’esclusione dal processo di voto degli indipendenti (un segmento di elettorato di solito favorevole a Sanders) e ha concluso spiegando che “nessuno può predire il futuro, ma penso che abbiamo possibilità reali di vincere una serie di future primarie. E, ma non ditelo alla Clinton perché potrebbe innervosirsi, ritengo che vinceremo in California”.
Non è, con ogni probabilità, vero. Sanders non ha i numeri per mettere davvero a rischio la candidatura della Clinton. Anche il voto in Kentucky e Oregon, con 55 delegati complessivi andati a Sanders e 51 alla Clinton, non fa molto per mutare la dinamica dello scontro. La Clinton mantiene un vantaggio decisivo rispetto a Sanders, con più di 400 superdelegati delegati (i maggiorenti del partito) che la sostengono, contro i circa 40 che hanno scelto Sanders. Detto questo, l’ex-segretario di Stato mostra ogni giorno di più di avere un problema “politico”. Anche l’ultima uscita sul ruolo forte che il marito Bill dovrebbe giocare nella politica economica della sua futura amministrazione non ha avuto gli effetti sperati. In molti hanno espresso dubbi sul ritorno di un uomo politico così legato al passato e così compromesso (soltanto lo scorso anno, l’ex-presidente avrebbe ricevuto 5 milioni in compensi per i suoi discorsi in aziende e istituzioni di mezzo mondo).
Sanders è stato, da questo punto di vista, categorico e volutamente ironico: “Bill Clinton all’economia? – si è chiesto. “Beh, questo è quello che pensa Hillary. Se diventassi presidente io – ha continuato – metterei nei ruoli chiave dell’economia gente che non viene da Wall Street, che capisce come mettere un freno al declino della classe media”. Proprio i rapporti troppo stretti tra il team Clinton e i poteri forti dell’economia e della finanza mondiale è del resto l’argomento polemico su cui Sanders continua a insistere – e che aliena a Hillary buona parte dei consensi. In visita a Puerto Rico, nelle scorse ore, Sanders ha insistito proprio su questo aspetto: “Ciò che i ‘fondi avvoltoi’ vogliono da Puerto Rico è che licenzi gli insegnanti, chiuda le scuole, tagli le pensioni e abolisca i minimi slariali, in modo ottenere enormi profitti dalla miseria della gente e dei bambini di Puerto Rico”.
Le divisioni profonde all’interno del partito sono rese ancora più evidenti da quanto successo lo scorso week-end in Nevada. In Nevada, dove si teneva la Convention del locale partito democratico, alcuni possibili delegati di Sanders sono stati giudicati ineleggibili dalla locale presidente, Roberta Lange. Sono scoppiate proteste, sono volate delle sedie, il numero del cellulare della Lange è stato messo online da supporters del senatore e la donna – e la sua famiglia – avrebbero ricevuto minacce di morte. Harry Reid, che è senatore del Nevada e uno dei più influenti democratici di Washington, ha subito chiamato Sanders per chiedergli di “porre un freno” ai suoi sostenitori e mostrare leadership. Stessa cosa ha fatto un’altra democratica di lungo corso, da anni amica di Sanders, Barbara Boxer. La risposta del senatore del Vermont ha raffreddato le speranze dei molti che cercano l’unità. Sanders ha sì condannato le violenze, ma ha anche spiegato che la leadership democratica in Nevada “ha usato il suo potere per prevenire un processo giusto e trasparente”.
Quello che preoccupa di più, a questo punto, è soprattutto quanto può succedere al momento della Convention nazionale di Filadelfia, a luglio – che, nelle speranze del partito, dovrebbe eleggere Hillary Clinton. In varie emails, siti web, sui social media, i sostenitori di Bernie Sandres stanno preparando azioni di disobbedienza civile, forme di protesta, che rischiano di rendere la Convention qualcosa di molto diverso da un palcoscenico per l’incoronazione di Hillary. Anche questo preoccupa i maggiorenti del partito, che chiedono a Sanders di intervenire. Di fronte al silenzio del senatore, resta l’attività dei suoi supporters, che si scambiano consigli sulle tattiche di proteste e suggerimenti legali in caso di arresti di massa. ”Quello che vedrete sono un insieme di tattiche – ha spiegato Elizabeth Arnold, 32 anni, ex-membro dello staff di Sanders in Pennsylvania -. Personalmente, non mi piace essere arrestata. Ma è essenziale essere in grado di esprimere il nostro dissenso e il diritto al Primo Emendamento. Il nostro sistema è terribilmente sbagliato, e spesso azioni giuste finiscono con degli arresti”.
Roberto Festa, Il Fatto Quotidiano