Cinquant’anni dopo, sempre di attualità
di Stefania Miccolis
“Solo alcuni sanno cosa sia l’amore. Se no, ce ne accorgeremmo. Quando arrivano queste cose, uno non può controllarsi, e l’amore si rivela, si manifesta. Non dico che non ce ne siano, di amori, ma sono pochi. Se uno ama una donna, è logico che voglia vincere a tutti i costi, magari mentendosi, come fa Antonio Dorigo (il protagonista del libro). E poi il mio libro finisce in bellezza. Non è calcolato, non è costruito come Il grande ritratto. L’ho scritto, se posso dirlo, con la stessa spontaneità del Deserto dei Tartari. Esprime il mio stato d’animo, ma un po’ aggravato in tinte. Ma non ho voluto scrivere un libro audace, magari per seguire la corrente. Lo avrei scritto anche se quel genere che va di moda fosse morto da un pezzo. […] Se è lecito essere un po’ presuntuosi, dirò che c’è tanta autenticità che, sinceramente, in altri libri non conosco” (Dino Buzzati in Alberico Sala, “Introduzione a Un amore”, Mondadori 1965).
Così Dino Buzzati si difendeva dalle accuse al suo nuovo romanzo, Un amore (ed. Mondadori, 1963), tacciato di freddo erotismo e di arido intellettualismo, privo di passionalità; accusato di speculare sul fenomeno del lolitismo, di plagiare Moravia e la noia milanese. Un amore sarebbe solo un brutto romanzo di intrattenimento e troppo ancorato alla realtà, che avrebbe allontanato l’autore dalla fantasia e magia dei suoi romanzi migliori, per approdare a uno stile asciutto e volto al monologo interiore.
In verità, con Un amore Dino Buzzati si mette a nudo, rivelando tutte le sue fragilità, i suoi complessi e complicati sentimenti, è sincero e genuino e il romanzo è intriso di umanità, ha “il piglio del racconto autentico, bruciante, estraneo alle malizie della moda erotica corrente” (Giorgio Pullini). “Non è mai stato così scoperto, vivo e inquieto” (Alberico Sala). Dimostra coraggio, “raro coraggio di verità”, “sottrae alle zone dell’inespresso o del soltanto confusamente espresso, una fetta assai importante del sottobosco dei sentimenti, degli impulsi di vita, delle incertezze, degli smarrimenti esistenziali” (Michele Abbate). Buzzati “ha portato la sua confessione su un terreno che fino a ieri appariva minato e pieno di avvertimenti e di esclusioni” ;“Di solito, uno scrittore non accetta di scendere direttamente sul campo della battaglia sentimentale”. “Un libro coraggioso, a suo modo una confessione […]: un uomo, uno scrittore coraggiosi non si trovano tanto sovente. Buzzati ha avuto il merito di riportare alla luce questa categoria e pagando di persona” (Carlo Bo). A difenderlo inoltre anche una personalità come Eugenio Montale: “Col nuovo romanzo Un amore – riporta sul “Corriere della Sera” – ci troviamo nel cuore del più acceso realismo e psicologismo, nella dissezione quasi anatomica di un sentimento amoroso che molti diranno patologico, ma che in realtà tutti gli uomini che non hanno gli occhi e il cuore foderato di una cotenna di lardo hanno almeno virtualmente provato”.
Il coraggio è anche quello di scardinare tabù, di smascherare l’ipocrisia borghese e intellettuale, le debolezze dell’uomo del buon ceto sociale attaccato più che mai alla carnalità, che sfrutta il corpo delle giovani donne, su cui qualsiasi sguardo, anche quello dei preti, si fermerebbe. E Montale scrive bene quando definisce Un amore “uno dei libri d’oggi che meglio rompano la crosta dell’ipocrisia: una crosta che ognuno si porta addosso fin dalla nascita e forse è necessaria affinché il mondo non diventi ancora più mostruoso. Ma l’ipocrisia è pur sempre un male che dev’essere riconosciuto, analizzato e rappresentato. Rovesciando il guanto della sua rispettabilità (sua e del personaggio), Buzzati ha imposto a tutti un esame di coscienza. Sono certo che molti, i più dei suoi lettori, gliene saranno grati”. Antonio Dorigo, il protagonista è proprio “Un borghese”, “ecco la questione, schifosamente borghese, con la testa piena di pregiudizi borghesi, orgoglioso della tua rispettabilità borghese”. Gli dirà a brutto muso l’amica della donna che amava, anch’essa prostituta. “Cosa vuoi che se ne facesse la Laide della tua rispettabilità borghese? E tu che cos’eri per lei?”. “Perché non andate a lavorare? Lo vuoi sapere il perché? Perché voi borghesi coi vostri sporchi soldi, ci avete impedito di andare a lavorare”. Dorigo è vittima dell’educazione cattolica ricevuta, ed ha una sorta di senso di colpa agli occhi degli altri. E vive il peso della morale e delle convenzioni sociali che gli fa vedere tutto il marcio in quello che fa: “A questa idea Dorigo provava un moto di incredulità e di rivolta. Come se ci fosse dentro qualcosa di completamente sbagliato. Da questo pensiero aspro e dolente, da questa incapacità di ammettere, nasceva però il desiderio. Una donna per bene, che fosse andata in letto con lui per amore disinteressato, gli sarebbe piaciuta infinitamente meno”. Solo alla fine del romanzo riuscirà a vincere la mediocrità e la falsità del perbenismo borghese. Un amore esce qualche anno dopo l’entrata in vigore della legge Merlin (1958) con cui venivano chiuse le case di tolleranza, legge cui Buzzati fu fortemente contrario perché così si distruggeva un’istituzione culturale. Lo scrittore la difende anche nel romanzo “Che cosa meravigliosa la prostituzione, pensava Dorigo. Crudele, spietata, quante ne restavano distrutte. Però che meravigliosa. Si stentava a credere che possibilità del genere potessero esistere nel mondo d’oggi, così regolamentato e squallido. Il sogno realizzato, a un colpo di bacchetta magica, per ventimila lire. Per ventimila lire, anche per meno spesso, avere subito, senza la minima difficoltà e pericolo, delle figliole stupende che nella vita solita, fuori del gioco, sarebbero costate una quantità di tempo, di fatiche, di soldi e poi magari al momento buono capaci di bruciare il paglione. Mentre qui! Una telefonata. Un breve percorso in macchina, sei piani di ascensore, ed ecco già la ninfetta stava togliendosi il reggipetto, sorridendo”.
Dorigo si innamora proprio di una prostituta, Laide, che da semplice donna che doveva soddisfare i suoi desideri sessuali diverrà la donna dei suoi sogni: “Lui l’amava per se stessa, per quello che rappresentava di femmina, di capriccio, di giovinezza, di genuinità popolana, di malizia, di inverecondia, di sfrontatezza, di libertà, di mistero. Era il simbolo di un mondo plebeo, notturno, gaio vizioso, scelleratamente intrepido e sicuro di sé, che fermentava di instabile vita intorno alla noia e alla rispettabilità dei borghesi è […] e benché molti ci avessero camminato sopra, era ancora fresco gentile e profumato”. “Come era vera, come era genuina, come era bella. Lui non l’avrebbe mai raggiunta. Lei era fuori, era straniera, apparteneva a un’umanità diversa, irraggiungibile, era l’incarnazione di…di…della.. del… maledizione di tutto quello che lui finora non ha avuto finora idiotamente disprezzava”. E più Dorigo l’ama e più prende consapevolezza della inferiorità dell’uomo col bagaglio intellettuale rispetto a chi sa vivere veramente: “Antonio la fissa in adorazione, intimidito da tanta sapienza istintiva, lui con tutto il suo ridicolo armamentario letterario nella crapa”.
È attorno a lei, “Una graziosa e piccante ragazza modernissima […] la creatura amata, lei in persona, la donna più desiderabile fra tutte le donne del mondo, lei ossessione incubo fatalità mistero vizio segretezza chic malavita grande città perdizione amore”, che si sviluppa un susseguirsi di emozioni, sensazioni contrastanti e contorcimenti mentali. Se ci si mette nei panni del protagonista si prova un reale senso di angoscia, di ansia, di tremore, di paura e di insicurezza, di umiliazione, di auto convincimento pur di non vedere la verità, di sofferenza e pena d’amore, in quel maledetto groviglio mentale di gelosia: “l’angoscia è un’onda nera che lo solleva e lo sprofonda a singhiozzi, dove è lei in questo momento?”. E si prova quella sgradevole sensazione dell’attesa, la cosa forse più insopportabile per chi ama e non sa di essere amato e soprattutto non si fida. Il ritardo di Laide “È un’inquietudine che gli entra in ogni parte del corpo, un affanno che monta, monta.” Attendere l’altro, il non essere sicuri se all’appuntamento dato sarà presente come promesso, pensare che non verrà, pensare che farà ritardo, pensare che abbia avuto un contrattempo, o ancora peggio che abbia mentito e nel frattempo si trovi con qualcun altro. Che angoscia non vederla per ore e interi giorni, la paura di essere dimenticato e abbandonato o semplicemente essere stato preso in giro per l’ennesima volta, e trovarsi ogni sorta di scusa mentendo a sé stesso pur di giustificare un’assenza. “Il pensiero di lei, tormento, inquietudine, angoscia, totale infelicità, lo possedeva come prima.” Il respiro spesso manca al lettore che è ancora più incalzato da quello stile privo di punteggiatura, un continuo susseguirsi di pensieri, monologhi interiori pieni di sospetti, sensazioni di malessere. Tutto fluttua nella mente come un fiume in piena, senza tregua.
Dorigo è innamorato come non lo era stato mai. Come dice Montale il romanzo verte sul tema dell’amore, un topos letterario: “Argomento vecchio? Vecchio ma con tutte le possibili varianti – dall’Angelo Azzurro fino a Senilità e a Lolita, se non vogliamo risalire a Zola e a molti altri scrittori veristi, – che lo rendono inesauribile”. Dorigo scopre l’amore: “Un segreto molto semplice”. “Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi , le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, […] tutte queste cose, di per sé vuote indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore”. “Quanto meschina sarebbe, di fronte a un grande spettacolo della natura, la nostra esaltazione spirituale se riguardasse soltanto noi e non potesse espandersi verso un’altra creatura”. Ma è anche una grande sofferenza che ti cambia e non ti rendi più conto di chi sei, o sei stato fino a quel momento: “perché lui era stato come una pietra legata a una corda e fatta girare più svelto sempre più svelto. E a farla girare era il vento era la bufera d’autunno era la disperazione, l’amore. E così follemente girando non si distingueva più che forma aveva, era diventato una specie di anello fluido e palpitante”. “Lui era un cavallo di giostra e a un tratto la giostra si era messa a girare in modo pazzo più svelta sempre più svelta e a farla girare così era lei, era Laide, era autunno, era la disperazione, l’amore. E così follemente girando lui cavallo aveva perso la forma di cavallo, non era più che un festone bianco vibrante [….] non era più lui, era un essere che nessuno prima conosceva e col quale comunicare era impossibile [….] egli ascoltava soltanto se stesso […] per lui nulla esisteva fuori che lei, Laide quella spaventosa precipitazione […] il pensiero di Antonio era interamente succhiato da lei, da quella vertigine”. “Che cosa è stata Laide se non la concentrazione in una persona sola dei desideri cresciuti e fermentati per tanti anni e soddisfatti mai?”. Ormai lo aveva in pugno “Nella sua consapevolezza di donna, stupefacente a quell’età, lei aveva detto: No, senza di me tu non sei capace di vivere”- “Tutto il mondo si riferisce a lei, senza di lei non c’è più senso nella vita nel lavoro nei discorsi nel mangiare nel vestirsi, tutto è assurdo e idiota senza lei”.
Laide è una figura che dà ansia per le sue menzogne, che sembrano così veritiere che ci si potrebbe anche credere, per la sfrontatezza, la spregiudicatezza, il menefreghismo, anche la maliziosità che sfocia nella cattiveria; solo alla fine della storia si prova per lei compassione, tenerezza. “Buzzati con Laide ci ha dato una figura del nostro tempo che ha la residenza nella Siberia degli odierni sentimenti. Un capolavoro fatto con la creta delle fantastiche menzogne e con gli atteggiamenti più spregiudicati ma al tempo freschi e ingenui” (Maurilio Mazzarò). “Ma perché la Laide lo espone a situazioni così umilianti?” – si chiede Dorigo – “Lo fa apposta? si diverte a tormentarlo? O lo fa innocentemente perché gli sembra che non ci sia niente di male?”. “Intanto egli si sente precipitare sempre più giù, gli viene in mente il professore Unrath dell’Angelo azzurro. Oh come era vera quella storia. Quando aveva visto il film, ai bei tempi giovani e spensierati, gli era sembrato inverosimile. Uno stimato professore degradarsi a quel punto. Oggi capisce. L’amore? È una maledizione che piomba addosso e resistere è impossibile”. “Quanto più atroce era l’umiliazione, tanto più insopportabile gli era l’idea di perdere la Laide.” Antonio a causa sua “è ira, rabbia, odio, eccitazione della lotta. Un disperato e drammatico vento lo porta. È la vita, lui non se ne accorge eppure mai in così brevi ore egli ha vissuto tanto così. Sconfitto, svillaneggiato, ingannato, tradito eppure vivo, idiota, ingenuo, misero, vile sì ma vivo. Precipitando si dibatte, è la prima volta che si mette a lottare così.”
Laide è la figura sulla quale ci sono pareri contrastanti tra i critici dell’epoca: c’è chi ritiene che di amore non si tratti in alcun modo come Pietro Citati, che paragonando il personaggio a quello di Nabokov scrive come “La giovanissima Laide, l’amata, invereconda, plebea «Lolita» milanese non ha nulla in comune con lo stupendo modello a cui vorrebbe assomigliare. Non semina attorno a sé, come il gran péché radieux di Humbert Humbert, trionfali ondate di vita. Questo lungo amore ignora la passione sensuale: grigio, spento, squallido, non suscita mai quel caldo, irrazionale aumento di vitalità in cui perfino il più oscuro sentimento amoroso fascia sé stesso. Laide è il centro di una pura meccanica psicologica; e si accontenta di produrre l’atonia, la depressione, la turpitudine con un ritmo così frenetico da simulare la presenza della vita.” Ma Montale non la pensa così e prosegue nel suo elogio : “Laide non è Lolita, perché Lolita è di qua dal vizio, ne viene toccata ma non propriamente coinvolta mentre Laide ne è impastata e travagliata pur salvando qualcosa di sé (il suo capriccio)”.
In realtà, il romanzo è pieno di vita, non fosse altro per quel turbinio di sentimenti che avvolgono, fasciano a volte stringono quasi a soffocarti. In questo crescendo di emozioni che incatenano, cresce la curiosità di sapere che cosa sta per succedere e non si vuole smettere di leggere. “Se il lettore di Un amore si sente coinvolto in modo a tratti insostenibile, ciò avviene non per la «verità» psicologica, documentaria della vicenda ma per l’intensità con cui il libro si radica nel suo autore. Non dirò un libro bello, un libro riuscito ma qualcosa di più: un libro vivo” (Giuliano Gramigna). Si vuole arrivare al finale, quel finale che cancella ogni cosa, e così tutte le palpitazioni cominciano a rallentare e si potrebbe esclamare “Tanto rumore per nulla”, per la pace e la tranquillità che si raggiungono dopo tutta quella sudata. O forse non è neanche giusto usare questa espressione, perché di nulla proprio non si è trattato visto che comunque si parla di una vittoria del protagonista sofferta e patita, ed ora conquistata. La sua conquista non è tanto la donna di cui si è innamorato ma l’averci fatto comprendere il vero senso dell’amore, quel sentimento senza del quale Dorigo non sarebbe stato guidato o spinto e non avrebbe potuto vincere. Forse è meglio utilizzare “La quiete dopo la tempesta”, si è questa la sensazione più giusta, perché finalmente si respira e Laide, divenuta tenera e dolce, vuole una bambina.
Stefania Miccolis